«Ascolta, Goony, se vuoi imparare qualcosa da Dennis, guardalo mentre manovra per livellare il terreno. Lo spiana con la pala, con la stessa velocità che usa nel parlare... E questo mi ricorda quello che volevo dirti. Hai mai avuto qualche fastidio con Dennis?»
Rivera allargò le mani. «Come posso aver fastidi con lui, se Dennis non mi parla mai?»
«Be', allora va bene. Continua così. Dennis è a posto, credo, ma farai meglio a tenerti lontano da lui».
Continuò, raccontando al ragazzo ciò che Peebles gli aveva detto, sul fatto di essere operatori e meccanici allo stesso tempo. Il volto scuro e magro di Rivera si allungò ancora di più, e le sue mani andarono al comando della lama, sfiorandolo appena, ma ugualmente saggiandone l'impugnatura composta e i controdadi che la tenevano salda al suo posto. Non appena Tom ebbe finito, replicò: «Va bene, Tom. Facciamo così: tu le rompi, ed io te le aggiusto. Ma se qualche volta ti serve aiuto, posso guidare la Daisy Etta per te, non ti pare?»
«Certo, ragazzo, certo. Ma non scordarti che nessuno può far tutto».
«Tu puoi far tutto», replicò il ragazzo.
Tom saltò giù dalla macchina. Rivera innestò la prima e si avvicinò lentamente alla pietra, appoggiandovi delicatamente la lama. Avvertendo il peso, la poderosa macchina, con un udibile ringhio, tese i muscoli. Rivera apri un po' la valvola, la macchina si appoggiò saldamente al masso, i cingoli slittarono, scavarono nel suolo, ammucchiando la terra smossa dietro di sé. Tom sollevò il pugno col pollice in alto, e il ragazzo cominciò ad alzare la lama. La D-7 abbassò il muso come un bue che dovesse farsi strada nella fanghiglia; il davanti dei cingholi affondò ancora di più, e la lama scivolò verso l'alto, sempre a contatto con la roccia, come una ruota dentata. La pietra si spostò, e all'improvviso emerse dalla terra che la copriva, inturgidendo il manto erboso come l'onda lenta della prua d'una nave. La lama perse la presa e scivolò sopra la pietra. Rivera tolse di colpo la frizione, evitando giusto per un pelo che il masso colpisse, ricadendo, il radiatore, sfondandolo. Poi fece marcia indietro, vi appoggiò contro la lama un'altra volta, e alla fine riuscì a far rotolare la pietra fuori dal suolo, alla luce del sole.
Tom rimase lì a guardarla, grattandosi dietro la testa. Rivera saltò giù dalla macchina e si fermò accanto a lui. Per un lungo attimo non dissero nulla.
La pietra era all'incirca rettangolare, con la forma di un grosso mattone, tagliato, su un lato, a un angolo di circa sessanta gradi. E su questa faccia obliqua sporgeva una cresta all'incirca quadrata, come una lingua su un pezzo di legno lavorato. La pietra aveva più o meno le dimensioni di novanta per sessanta per sessanta centimetri, e doveva pesare tre quintali e mezzo.
«Questa», dichiarò Tom, sbarrando gli occhi, «non è certo cresciuta qui,e se l'ha fatto, non può esser certo cresciuta a quel modo».
«Una piedra de una casa», fece Rivera, con voce sommessa. «Tom, qui una volta c'era un edificio, no?»
Tom si girò all'improvviso e fissò il monticello.
«C'è un edificio, qui, o per lo meno quanto ne rimane. Solo Dio sa quanti anni ha...»
Restarono lì, immobili, nella luce che andava digradando lentamente, fissando il piccolo poggio. Calò su di loro una sensazione d'oppressione, come se non si udissero più né il vento, né alcun suono. Eppure, il vento soffiava, e dietro di loro Daisy Etta rumoreggiava, col motore borbottante al minimo, e niente era cambiato e... Che fosse questo? Che niente, appunto, era cambiato? Oppure, che niente che avrebbe dovuto mutare... ora sarebbe cambiato?
Tom aprì la bocca due volte per parlare, e non ci riuscì, o non volle, non avrebbe saputo dire quale delle due cose. Rivera si accoccolò all'improvviso sulle natiche, la schiena dritta, gli occhi sgranati.
Una sensazione di gelo prese forma e s'intensificò. «Fa freddo», disse Tom, e la sua stessa voce gli suonò aspra. Eppure, il vento soffiava caldo su di loro. E il suolo era caldo, dove la pelle di Rivera lo toccava. Il freddo non era una mancanza di calore, lì, ma la mancanza di qualcos'altro: dello specifico calore della vita. La sensazione oppressiva crebbe, come se fosse stata iniziata dalla loro consapevolezza della stranezza di quel luogo, e adesso la loro crescente sensibilità la facesse crescere.
Rivera ruppe il silenzio, biascicando qualcosa in spagnolo.
«Cosa stai guardando?» gli chiese Tom.
Rivera sussultò, alzò di scatto un braccio, come per respingere l'improvvisa esplosione della voce di Tom.
«Io... Non c'è niente da vedere, Tom. Già un'altra volta mi ero sentito così, prima d'oggi. Non so...» Scosse la testa, gli occhi stralunati, vacui. «E dopo, c'è stata una tempesta infernale...» La sua voce si spense.
Tom l'agguantò per la spalla e lo tirò bruscamente in piedi. «Goony! Sei sbronzo?»
Il ragazzo sorrise, quasi con gentilezza. Aveva il labbro superiore imperlato di sudore. «Non è niente, Tom. È soltanto che mi sono spaventato da morire».
«Allora, caccia via lo spavento quanto basta a risalire sul cingolato e a rimetterti al lavoro», ruggì Tom. Poi, con più calma, aggiunse: «So che c'è qualcosa di sbagliato quassù, Goony, ma non è certo correndo dietro a ogni ubbia che riusciremo a costruire una pista. So come si fa a toglier la paura a qualcuno che ha paura degli spari. Dovrei riuscire a fare almeno altrettanto per te. Ora, vai fino a quella montagnola e vedi se c'è una riserva di sassi per noi. Abbiamo un acquitrino, là sotto, da riempire».
Rivera esitò, fece per parlare, deglutì, poi s'incamminò lentamente verso la D-7. Tom rimase a guardarlo, chiudendo la mente all'impalpabile pressione di qualcosa,lì vicino, in qualche punto imprecisato... qualcosa che gli faceva gelare le budella.
Il bulldozer puntò il muso verso la montagnola, grugnendo, ricordando all'improvviso a Tom che il nome di «slang» spagnolo per quella macchina era puerco: porco, verro. Rivera manovrò, girando la macchina così da penetrare in un angolo del poggio con la lama; terriccio e cespugli si gonfiarono, e caddero giù dal pendio, rovesciandosi sul vomere. Il ragazzo terminò la prima passata, spinse oltre il carico, lo seminò sulla spianata, poi girò la macchina e ricominciò.
Dieci minuti dopo, Rivera toccò un'altra pietra, la lama d'acciaio al manganese stridette su di essa, una nuvoletta di polvere grigia s'innalzò dal bordo tagliente. Tom si chinò e l'esaminò da vicino dopo che la macchina fu passata. Era lo stesso tipo di pietra che avevano trovato sul tratto pianeggiante, e aveva la stessa forma. Qui però faceva parte di un muro, ed era incastrata, su ambo i lati, ad altri blocchi, ovviamente grazie a quelle protuberanze quadrate e alle relative rientranze.
Freddo, freddo come...
Tom tirò un profondo respiro e si asciugò il sudore che gli gocciolava sugli occhi.
«Non m'importa un accidente», bisbigliò. «Questa pietra mi serve, e la prenderò, ad ogni costo. Ho una palude da riempire». Fece alcuni passi indietro e accennò a Rivera di penetrare con la lama nella crepatura scheggiata che vi aveva praticato poco prima.
La D-7 si avvicinò al muro e si bloccò, mentre Rivera innestava la prima, toglieva gas e abbassava la lama. Tom alzò lo sguardo su di lui. Le labbra del ragazzo erano bianche; tolse la frizione, la lama piombò giù e s'infilò di precisione, con l'angolo, nella fessura..
La macchina mugghiò la sua protesta e cominciò a muoversi di traverso, facendo perno sull'estremità della lama. Tom schizzò via dalla sua traiettoria, corse dietro alla macchina, che adesso era quasi parallela al muro, e una volta al sicuro, si tenne con una mano pronta a segnalare, gli occhi sulla lama sotto sforzo. Poi, tutto accadde insieme.
Con un crepitio e uno schiocco, il blocco cominciò a venir via, ruotando sul lato della protuberanza quadrata, e trascinando fuori, così, anche il suo immediato vicino. Il blocco appoggiato sopra questi due cadde, e l'intera montagnola parve assestarsi. E qualcosa sibilò fuori dal buco nero che si era aperto nel muro. Qualcosa di simile a una nebbia, ma non una nebbia visibile... qualcosa d'immenso e incommensurabile. E insieme ad esso, uscì una raffica di quel freddo che non era freddo, l'acre sentore dell'ozono, e il crepitio d'una violenta scarica di elettricità statica.
Tom si trovò a una ventina di metri dal muro senza saper come. Si fermò, e vide la D-7 impennarsi come uno stallone selvaggio, mentre Rivera faceva due capriole in aria. Tom urlò alcune sillabe senza senso e si precipitò verso il ragazzo, là dove giaceva lungo disteso in mezzo all'erba coriacea, lo sollevò tra le braccia e corse via. Solo allora si rese conto che stava scappando davanti alla macchina.
La quale era come impazzita. Il suo vomere si alzava e si abbassava, mentre si allontanavano dal monticello con una traiettoria curva, il regolare automatico che ululava a squarciagola, e le leve dei comandi che si dimenavano, sferzando l'aria. La lama affondò ripetutamente nel terreno, scodellandolo fuori e lasciando grandi buche attraverso le quali la D-7 si tuffava sferragliando e muggendo inferocita. Percorse così grandi archi irregolari, poi girò su se stessa e tornò sbuffando verso la montagnola, dove prese a colpire il muro sepolto, raschiando e ruggendo e avventandovisi contro con furia omicida.
Tom raggiunse l'orlo dell'altopiano col respiro in gola e, inginocchiandosi, adagiò con delicatezza il ragazzo sull'erba.
«Goony, ragazzo mio... ehi...»
Le lunghe, seriche ciglia sbatterono un paio di volte, si sollevarono. Qualcosa si ruppe in Tom, quando vide gli occhi rovesciati all'indietro al punto da far vedere solo il bianco. Rivera esalò un lungo, tremulo sospiro, che s'interruppe all'improvviso. Ebbe due colpi di tosse e cominciò a scuotere la testa da un lato all'altro con tanta violenza che Tom la prese fra le mani e la bloccò.
«Ay... Madre Maria... que ha me pasado, Tom cosa mi è successo?»
«Sei caduto dalla D-7, stupido. Come... come ti senti?»
Rivera esplorò il suolo a tastoni; riuscì a puntare i gomiti, accennò a sollevarsi, poi ricadde giù. «Mi sento bene. Un mal di testa d'inferno. Cosa... cosa m'è successo ai piedi?»
«I piedi? Ti fanno male?»
«Non male...» Il suo volto divenne grigio, le labbra si strinsero. «No, niente, Tom».
«Non li puoi muovere?»
Rivera scosse la testa, sempre tentando. Tom si alzò in piedi. «Prenditela con calma. Andrò da Kelly. Torno subito».
Si allontanò in fretta, e quando Rivera lo chiamò, non si voltò. Tom aveva visto altre volte un uomo con la schiena rotta.
Sull'orlo del piccolo altopiano, Tom si fermò, in ascolto. Alla luce sempre più fosca del crepuscolo, vide il bulldozer fermo accanto alla montagnola. Il motore era in funzione: non era andato in panne. Ma ciò che aveva fatto fermare Tom era stato il fatto che il motore non era in folle, ma saliva e scendeva di giri, come se una mano impaziente controllasse il gas: vrùmm, vruuuum,imballandosi più rapidamente di quanto perfino un regolatore guasto avrebbe potuto consentire, per poi diminuire fin quasi al silenzio, interrotto soltanto dall'esplosiva punteggiatura degli scoppi secchi e irregolari dello scappamento. Poi tornava a imballarsi sempre di più, quasi urlando, salendo a un numero di giri al minuto che minacciava ogni parte mobile, scuotendo l'intera, grande macchina come un micidiale accesso di febbre malarica.
Tom s'incamminò in fretta verso la D-7, cupo in volto, perplesso e accigliato, il volto grintoso segnato dalle intemperie. I regolatori possono, occasionalmente, guastarsi, e di tanto in tanto può capitare che un motore si faccia a pezzi da solo, salendo sempre più di giri, senza alcun controllo. Se un operatore fosse stato tanto stupido da lasciare la sua macchina con la frizione innestata, questa avrebbe potuto scappar via, mettendosi a correre come aveva fatto la D-7 — ma non avrebbe potuto mettersi a curvare, a meno che un angolo della lama non si fosse impegnato contro qualcosa in grado di opporre resistenza, e in tal caso il motore avrebbe potuto salire e scendere di giri, la macchina sterzare qua e là, alzando e abbassando la lama.
Mentre lui si avvicinava, il motore aveva cominciato a rallentare, e alla fine si stabilizzò al minimo, mantenendo un ritmo costante e regolare. Tom ebbe l'impressione, folle idea che la macchina lo stesse osservando. Si scrollò di dosso quella sensazione, si avvicinò e mise una mano sul parafango.
La D-7 reagì come uno stallone selvaggio. Il grosso Diesel ruggì, e Tom vide chiaramente la leva della frizione scattare all'indietro, oltre il centro. Balzò di lato, aspettandosi che la macchina scattasse in avanti, ma a quanto pareva era innestata la retromarcia, poiché schizzò indietro, un cingolo bloccato, e l'estremità più vicina della lama descrisse un fulmineo arco carico di ferocia, passandogli a pochi centimetri di fianco, mentre si tirava indietro con un salto da ballerino.
Ma, come fosse rimbalzata contro un muro, la D-7 cambiò direzione e puntò su di lui, la lama da tre metri e mezzo sollevata, i due grossi fari che incombevano su di lui dai loro supporti arcuati, simili agli occhi sporgenti di un ciclopico rospo. Tom non ebbe altra scelta che saltargli dritto addosso, afferrando la cima della lama con ambedue le mani, gettando il corpo indietro per puntare i piedi sul vomere curvo. La lama ricadde, affondando nel terreno morbido, scavando in profondità. Il terriccio caricato sul vomere fu sollevato e ribollì intorno alle gambe di Tom, il quale le sbatté, frenetico, per non farsi trascinar giù nel vortice. Poi la lama si alzò, lasciando un mucchio di terra alto un metro abbondante sul bordo della buca. La macchina vi precipitò dentro con i cingoli, poi s'inerpicò sul mucchio. Un fulmineo sbilanciamento sul culmine, quando la D-7 lo superò come una motocicletta che saltasse da una rampa, e poi uno schianto da scuotere l'intera spina dorsale quando le quattordici tonnellate di metallo si abbatterono al suolo, con la lama in avanti.
Parte delle callosità delle mani di Tom rimase attaccata al bordo della lama, quando lui venne scagliato via. Ma non cadde lungo disteso: aveva raccolto le gambe contro il corpo, cosicché poté balzare in piedi non appena toccò il suolo; poiché sapeva che nessuna macchina poteva affondare la lama nel suolo a quel modo e tirarla fuori facilmente. Saltò in cima alla lama e mise una mano sul tappo del radiatore, fece una piroetta. Perversamente, il tappo si staccò e gli rimase in mano, nella frazione di secondo in cui soltanto quella mano appoggiava su qualcosa. Perso l'equilibrio, atterrò su una spalla, sferzando l'aria con le gambe, scivolando sulla liscia rotondità del cofano verso il cingolo che stava smuovendo la terra, più sotto. Disperatamente, Tom cercò di afferrare il tubo della presa d'aria, vi aveva appena messo sopra le dita quando la macchina si liberò e tornò ad arrampicarsi sul mucchio di terra, a marcia indietro, superandone la sommità con una impennata selvaggia. Ancora una volta quel balzo mozzafiato, quando la macchina fece perno sulla cima del mucchio di terra, e lo schianto sferragliante al successivo atterraggio, compiuto quasi di piatto sui cingoli.
Lo scossone costrinse Tom a mollare la presa, e mentre riscivolava sul cofano il gomito gli s'incastrò sul tubo di scappamento. Il metallo rovente gli morse le carni. Grugni, e vi strinse intorno il braccio. Lo slancio lo fece ruotare intorno al tubo e i suoi piedi sbatterono contro le leve della frizione. Agganciandosi a una di queste col collo del piede, piegò le gambe e scattò all'indietro fino a quando non cadde di peso sul seggiolino.
«Adesso», esclamò, digrignando i denti, gli occhi appannati da un rosso velo di dolore, «vedremo se non ti lascerai manovrare». E tolse la frizione con un calcio.
Il motore gemette per essere stato staccato così di colpo. Tom afferrò la manetta del gas, il pollice schiacciato sul pulsante del nottolino d'arresto, e spinse avanti la leva per arrestare il flusso del carburante.
Non volle arrestarsi; scese al minimo numero di giri, ma non volle arrestarsi.
«C'è una cosa della quale non puoi fare a meno», borbottò. «La compressione».
Alzatosi in piedi, si sporse sul cruscotto, allungando la mano verso la leva della decompressione. Non appena fu scivolato fuori dal seggiolino, la macchina tornò ad aumentare i giri. Tom si volse verso la manetta del gas che era tornata alla posizione di «aperto». Quando la sua mano la toccò, la leva della frizione si reingranò da sola e la macchina ululante si lanciò in avanti con una sgroppata che quasi gli fece schizzar via la testa dal collo, scagliandolo nuovamente, con violenza, contro il seggiolino. Tom afferrò il comando idraulico della lama e lo mise in posizione di «libero»; poi, quando il vomere, cadendo, toccò il suolo, passò a quella di «scavo». L'orlo tagliente morse il terreno e la macchina cominciò a lavorare. Stringendo in pugno il comando della lama, Tom spinse in avanti la manetta del gas con l'altra mano. Una delle leve della frizione tornò indietro con una sferzata e lo colpì alla rotula, facendolo spasimare. Involontariamente lasciò andare il comando della lama, e il vomere cominciò ad alzarsi. Il motore girò più in fretta, e Tom si accorse che non rispondeva alla manetta del gas. Imprecando, balzò in piedi; le leve ripresero a muoversi come sferze e lo colpirono tre volte all'inguine, prima che riuscisse a togliersi di mezzo.
Accecato dal dolore, Tom si aggrappò ansante al cruscotto. Alla sua destra, il misuratore della pressione dell'olio cadde giù con un tintinnio di vetri rotti, e dal tubo troncato, di sei millimetri di sezione, l'olio bollente schizzò fuori, irrorandolo. Il dolore improvviso ridestò la sua vacillante consapevolezza. Ignorando i colpi della leva della frizione sinistra e di quella principale, che continuavano la loro sarabanda, si chinò sul lato sinistro del cruscotto e afferrò la leva della compressione, abbassandola. Le grandi valvole sulle testate dei cilindri si aprirono e rimasero bloccate in quella posizione. Carburante atomizzato e aria surriscaldata sfrigolarono fuori, e quando la testa e le spalle di Tom toccarono il suolo, la grande macchina selvaggia si fermò di botto, salvo per il borbottio dell'acqua che bolliva nel sistema di raffreddamento.
Qualche minuto più tardi, Tom sollevò la testa e grugnì. Rotolò su se stesso e si rizzò a sedere, il mento appoggiato alle ginocchia, il corpo trapassato da ondate successive di dolore. Man mano il dolore si attenuò, Tom riuscì a strisciare fino alla macchina e infine, aggrappandosi con le mani a un cingolo, si tirò in piedi. Ancora stordito, cominciò a mettere fuori uso il trattore, almeno per la notte.
Aprì il rubinetto sotto il serbatoio del carburante e lasciò che il fluido giallo e caldo zampillasse sul terreno. Aprì uno scomparto accanto alla pompa a iniezione. Vi trovò del fil di ferro, di cui si servì per legare la leva di decompressione. Si arrampicò strisciando sopra la macchina, strappò il cappuccio del filtro della presa d'aria, si sfilò la camicia e la conficcò dentro il tubo. Spinse completamente in avanti la manetta del gas e la bloccò col fermo. Poi chiuse il rubinetto del tubo che alimentava la pompa.
Poi si lasciò cadere pesantemente al suolo e, quasi stremato dalla fatica, tornò sul bordo dell'altopiano dove aveva lasciato Rivera.
Non si accorsero di quanto Tom fosse malconcio fino a un'ora e mezza più tardi. Avevano avuto troppo da fare: preparare una barella per il portoricano, preparagli un riparo con varie casse e, come tetto, una tenda militare. Tirarono fuori la cassetta di pronto soccorso e il manuale medico e fecero quello che potevano: legarono e steccarono, e gli diedero un narcotico. Tom era una massa di lividi, e il suo braccio destro, là dove si era incastrato nel tubo di scarico, era tutto in carne viva. S'indaffararono a mettere a posto anche lui, col vecchio Peebles che si dava da fare con la polvere di sulfamidico e le bende come un'infermiera provetta. Soltanto dopo cominciarono a parlare.
«Ho visto una volta un tizio sbalzato da una pala meccanica», dichiarò Dennis, mentre sedevano intorno al bricco del caffé, masticando le razioni. «Era seduto in bilico sul seggiolino e guardava indietro. La macchina ha urtato una roccia e si è impennata. L'ha scagliato sul cingolo, e l'ha spalmato su tre metri buoni, là sul suolo». Inghiottì un po' di caffé per ammorbidire il boccone di cibo intorno al quale aveva parlato, poi riprese a masticare rumorosamente. «È proprio da tonti starsene in bilico sul proprio deretano, anche su una carriola... non riesco a capire perché quel negro lo facesse sopra un bulldozer».
«Non lo stava facendo», disse Tom.
Kelly si sfregò la mandibola appuntita. «Sedeva ben saldo sul seggiolino ed è stato sbalzato?»
«Proprio così».
Dopo un attimo d'incredulo silenzio, Dennis chiese: «Ma cosa stava facendo... i cento all'ora?»
Tom fissò il cerchio dei volti intorno a lui, illuminati dal vivido bagliore della lanterna a pressione, e si chiese quale sarebbe stata la reazione se avesse raccontato le cose esattamente come stavano. Avrebbe comunque dovuto dir qualcosa... anche se non proprio la verità.
«Stava lavorando», disse alla fine. «Scalzava pietre fuori dal muro di un vecchio edificio, lassù sul poggio. Una si è staccata, e quando l'ha fatto, il regolatore deve aver dato i numeri. Si è impennata come un cavallo imbizzarrito ed è scappata via».
«Scappata via?»
Tom aprì la bocca, poi tornò a chiuderla, e si limitò ad annuire.
Dennis commentò: «Be', immagino che sia quello che succede quando si mette un meccanico a far l'operatore».
«Oh, questo non c'entra affatto», sbottò Tom.
Peebles si affrettò a intervenire: «Tom... e la D-7? Niente di rotto?»
«Qualcosa», disse Tom. «Meglio dare un'occhiata alle frizioni direzionali. E inoltre, era surriscaldata».
«Ha la testata rotta», intervenne Harris, un giovanotto corpulento, le spalle da bufalo, famoso per la sua sete.
«Come fai a saperlo?»
«Ho visto quando Al ed io siamo saliti con la barella a prendere il ragazzo, mentre voi eravate tutti occupati a costruire il riparo. Da un lato del monoblocco scorreva giù l'acqua calda».
«Mi stai dicendo che avete fatto tutta la strada fino al monticello per dare un'occhiata a quella macchina, mentre il ragazzo giaceva là? Vi avevo ben detto dove si trovava!»
«Fino al monticello?» Gli occhi rigonfi di Al Knowles parvero quasi schizzar fuori dalle orbite. «Abbiamo trovato quel cingolato neanche a sei metri da dov'era il ragazzo!»
«Cosa?»
«Proprio così, Tom», disse Harris. «Cosa ti rode? Tu, dove l'avevi lasciato?»
«Ve l'ho detto. Accanto al monticello... al vecchio edificio che avevamo cominciato a demolire».
«Lasciando acceso il motore d'avviamento?»
«Motore d'avviamento?» La mente di Tom andò al piccolo motore a due cilindri, a benzina, imbullonato al fianco del monoblocco del grosso Diesel e accoppiato tramite un cambio e una frizione al volano del Diesel, per avviarlo. Ricordò l'ultima occhiata che aveva rivolto alla macchina immobile e silenziosa, salvo il motore dell'acqua che bolliva. «Per l'inferno, no!»
Al e Harris si scambiarono un'occhiata. «Oh, in quei momenti devi essere stato un po' intontito, Tom», disse Harris, senza cattiveria. «Quand'eravamo a metà strada l'abbiamo sentita, e sai che non ci si può sbagliare con quel fracasso. Pareva fosse sotto avvisamento».
Tom si picchiò senza troppa forza le tempie coi pugni chiusi. «Ho lasciato quella macchina bloccata», replicò, con calma. «Le ho tolto la compressione, ho legato la leva. Ho perfino ficcato la mia camicia nella presa d'aria. Ho vuotato il serbatoio. Ma... non ho toccato il motorino d'avviamento».
Peebles volle sapere come mai si fosse dato tanto da fare. Tom si limitò a fissarlo con sguardo vacuo, e scosse la testa. «Avrei dovuto strapparle i fili. Non ho mai pensato al motorino d'avviamento», bisbigliò. Poi: «Harris... hai detto di aver trovato il motorino d'avviamento in funzione, quando sei arrivato in cima?»
«No... la macchina era ferma. E calda, spaventosamente calda. Direi che il motorino d'avviamento si fosse grippato. Dev'essere questa la spiegazione, Tom. Hai lasciato in funzione il motore d'avviamento, e in qualche modo hai ingranato anche la frizione e il Bendix». Ma la sua voce perse via via il tono convinto, mentre diceva questo: ci sarebbero voluto diciassette movimenti distinti per avviare una macchina di quel tipo.
«Ad ogni modo, la marcia era ingranata, e sia pure lentamente si è mossa col motorino».
«Io l'ho fatto, una volta», annuì Chub. «Avevo rotto una biella su una Otto, durante dei lavori su un'autostrada. Le ho fatto fare più di un chilometro in quel modo, col motorino d'avviamento. Solo che dovevo fermarmi almeno ogni cento metri, per farla raffreddare un po'».
Non senza sarcasmo, Dennis disse: «A me pare che la Sette volesse far fuori il negro. Gli ha dato una prima stoccata, e poi è tornata a completare l'opera». Al Knowles diede in una fragorosa sghignazzata.
Tom si alzò in piedi, scuotendo la testa, e si allontanò fra le casse, verso l'ospedaletto da campo improvvisato per il ragazzo.
All'interno, ardeva una luce fioca, e Rivera giaceva perfettamente immobile, con gli occhi chiusi. Tom si sporse dalla soglia, che era il lato aperto del cassone d'imballaggio di un motore, e l'osservò per un lungo attimo. Alle sue spalle, sentiva il brusio delle voci dei compagni. Per ogni altro verso, la notte era silenziosa, senza il minimo alito di vento.
Il volto di Rivera era di quel particolare colore che assume una pelle olivastra quand'è del tutto prosciugata dal sangue. Tom gli fissò il petto e, per un istante di panico, di parve di non cogliere nessun movimento. Entrò, e appoggiò una mano aperta sul petto del ragazzo, per sentirgli il cuore. Rivera rabbrividì, i suoi occhi si spalancarono, e trasse un improvviso sospiro che si interruppe, lacerandosi in fondo alla gola. «Tom... Tom!» gridò, quasi con un rantolo.
«Sì, Goony... que pasa?»
«Sta tornando... Tom!»
«Chi?»
«El De Siete».
Daisy Etta. «Non sta tornando, ragazzo. Adesso sei giù dal poggio. Fatti coraggio, figliolo».
Gli occhi scuri, in preda all'effetto soporifero, del ragazzo, si sollevarono verso di lui, fissandolo senza espressione. Tom arretrò, ma gli occhi continuarono a fissarlo. Non vedevano niente. «Dormi, adesso», gli bisbigliò. Gli occhi si chiusero all'istante.
Kelly stava dicendo che era impossibile farsi male durante dei lavori di costruzione, a meno che non si combinassero delle idiozie. «Anche se, a volte, non ci si rende conto che qualcuno ne sta facendo una, finché non si è fatto male».
«L'idiozia più grande è stata quella di mettere un ragazzo, e per giunta neppure operatore, su quella macchina», insisté Dennis, con una punta di soddisfazione nella voce.
«Già un'altra volta hai tentato di cantarci questa canzone», disse pacato il vecchio Peebles. «Odio dover far notare qualcosa di simile a un uomo, perché non serve far confronti. Ma ho lavorato con quel ragazzo, Rivera, molto a lungo, ormai, e ne ho visti altrettanto bravi, ma dannatamente pochi di migliori. Per quanto ti riguarda, tu vai bene col vaglio, ma il ragazzo può darti dei punti e farti sembrare un ragioniere, quando sei alle prese con un bulldozer».
Dennis si alzò a metà, e lanciò un'imprecazione. Guardò Al Knowles, cercandone l'appoggio, e l'ottenne. Guardò il resto della cerchia, e non ne ottenne alcuno. Peebles era mezzo disteso e succhiava la pipa, seguendo la scena da sotto le sopracciglia cespugliose. Dennis si calmò, affrontando lo stesso argomento da una diversa direzione.
«Allora, cosa vuol dire? Più dici che è in gamba, meno ragioni aveva di cadere da un cingolato e farsi male».
«Non ho ancora le idee chiare», disse Chub, con una voce il cui tono significava, in pratica, "Mi spiace doverlo dire, ma..."».
All'incirca in quel momento, Tom ricomparve, come un sonnambulo, fermandosi in modo che la vivida luce della lanterna si trovasse fra lui e Dennis. Dennis riprese a parlare senza accorgersi che Tom era lì vicino: «È qualcosa che non scoprirai mai. Quel portoricano è un ragazzo piuttosto robusto. Potrebbe darsi che Tom gli abbia detto qualcosa che non gli piaceva, e lui abbia tentato di piantargli un coltello nella schiena. Lo fanno tutti, quei tizi, sapete. Tom non può essersi ridotto a quel modo soltanto per aver tentato di fermare una macchina. Devono averla tirata in lungo, e il negro è finito con la schiena rotta. Tom regola il bulldozer cosicché gli passi sopra mentre è disteso là, e poi vien giù da noi, cercando di farci credere che...» La sua voce oscillò e si spense quando Tom si profilò sopra di lui.
Tom afferrò l'operatore del vaglio per il davanti della camicia, servendosi del braccio sano, e Io scrollò come un sacco vuoto.
«Fetente», ringhiò. «Dovrei farti a pezzi con la lama del bulldozer». Tirò Dennis in piedi e gli mollò un colpo col lato ossuto dell'avambraccio. Dennis crollò a terra... o meglio, si rannicchiò a terra più che cadere: «Ma Tom, stavo solo parlando. Solo uno scherzo, Tom, volevo solo...»
«E anche vigliacco», ringhiò Tom, facendo un passo avanti, sollevando un massiccio stivale del Texas. Peebles abbaiò: «Tom!» e il piede tornò a terra.
«Fuori dalla mia vista», tuonò Tom. «Via!»
Dennis se ne andò. Al Knowles fece: «Oh, Tom, ma tu non puoi...»
«Tu, occhi da fagiolino!» s'infuriò Tom, con voce aspra e tesa. «Vattene via col tuo fratello siamese!»
«Va bene, va bene», replicò Al, bianco in volto, e scomparve nel buio dietro a Dennis.
«Al diavolo», disse Chub. «Me ne vado a letto». Raggiunse una cassa, tirò fuori un sacco a pelo col cappuccio a zanzariera, e si allontanò senza aggiunger parola. Harris e Kelly, entrambi in piedi, si misero seduti. Il vecchio Peebles non si era mosso.
Tom restò immobile, a fissare il buio, le braccia dritte sui fianchi e i pugni chiusi.
«Siediti», l'invitò Peebles, con gentilezza. Tom si girò e lo guardò senza rispondere. «Siediti, non posso cambiarti le bende se non ti siedi». Indicò la fasciatura intorno al gomito di Tom. Era rossa, una macchia che si andava allargando, i tessuti lacerati si erano nuovamente riaperti quando il grosso georgiano aveva teso i muscoli infuriati. Si sedette.
«Parlando d'idiozia», disse Harris, con calma, mentre Peebles si metteva al lavoro, «stavo per dire che io ho battuto tutti i record. Ho fatto la cosa più stupida che sia mai stato possibile con una macchina. Nessuno potrebbe battermi».
«Io si», interloquì Kelly. «Una volta stavo manovrando una gru montata su cingoli. Avvio il motore e comincio a sollevare il braccio della gru: era un affare di venticinque metri. La macchina era su una piattaforma di legno in mezzo a una palude. Sento il motore che perde colpi e scendo dal seggiolino per dare un'occhiata al filtro. Ci metto più tempo a trafficare, e il braccio si solleva in aria e poi, di colpo, si rovescia all'indietro e piomba sulla cabina. Lo scossone m'inclina la piattaforma e la gru scivola lentamente all'indietro, con solennità se volete, col sedere in avanti, dentro il fango. Ci finì dentro sepolta fino agli occhi». Ebbe una bonaria risata. «Pareva una draga!»
«E io insisto nel dire che ho fatto la cosa più stupida che si sia mai vista, senza nessuna esclusione», insisté Harris. «Stavo lavorando su un fiume, nell'allargamento di un canale. Ero appena tornato da una bisboccia di tre giorni, ancora istupidito dal rum. Salito su un bulldozer, lavoravo intorno al ciglio di un dirupo di sei metri. Giù in fondo al dirupo c'era un grosso albero, un hickory, con un grosso ramo che si protendeva parallelo al bordo del dirupo. Mi venne l'idea balorda di rompere quel ramo. Misi un cingolo sul ramo e l'altro sul bordo del dirupo. Ero ormai mezzo fuori, col ramo che già si era piegato un po', prima che mi venisse in mente cosa sarebbe successo se si fosse rotto. Ma proprio in quell'istante, si ruppe. Conoscete l'hickory: quando si rompe, si rompe tutto. Così, precipitammo dentro a quasi dieci metri d'acqua: io e il cingolato. In qualche modo ne esco fuori. Quando tutte le bolle smettono di salire, nuoto intorno guardando sott'acqua, verso la gru. Stavo ancora sguazzando là intorno, quando arriva di corsa il sovrintendente e vuol sapere cosa c'è. Gli grido, "Guardi là sotto, dal modo in cui l'acqua si muove, pare che il cingolato stia lavorando, o cerchi di farlo, sul fondo". Il sovrintendente stringe le labbra e caccia un fischio. Mio Dio, quante me ne ha dette, quell'uomo».
«E dov'è che hai trovato un altro lavoro?» sbottò Kelly.
«Oh, non mi licenziò», fece Harry, con calma. «Mi disse che non poteva permettersi di licenziare un uomo così stupido. Disse che mi voleva intorno per potermi guardare tutte le volte che si sentiva di cattivo umore».
Tom disse: «Grazie, ragazzi. È un buon sistema come tanti altri per dire che tutti facciamo errori». Si alzò in piedi, esaminando da vicino la nuova fasciatura, girando il braccio davanti alla lanterna. «Potete tutti pensarla come vi fa piacere, ma io non ricordo che si sia commessa nessuna stupidità lassù al monticello, questa sera. Ad ogni modo, è finita. Devo dirvi cosa penso dell'idea di Dennis?»
Harris esplose in una parolaccia che liquidò definitivamente Dennis e qualunque altra cosa avesse potuto dire.
Peebles commentò: «Dennis e il suo amico dagli occhi sporgenti stanno bene insieme, ma non contano poi tanto. Quanto a Chub, si può convincerlo a fare qualunque cosa sia ragionevole».
«Così li hai messi tutti in fila, eh?» Tom diede una scrollata di spalle. «Nel frattempo, costruiremo o no questa pista d'aeroporto?»
«La costruiremo», disse Peebles. «Soltanto, Tom, io non ho il diritto di darti consigli, ma vacci piano con le maniere brusche, dopo quello che è successo stasera. Possono danneggiarci molto».
«Lo farò se potrò», disse Tom, burbero. Si separarono e andarono a dormire.
Peebles aveva ragione. Li danneggiarono molto. Spinse Dennis a usare la parola «omicidio» quando, la mattina dopo, scoprirono che Rivera era morto durante la notte.
Il lavoro progredì, malgrado tutto ciò che era successo. Con macchinari come quelli di cui disponevano, è difficile che le cose rallentino. Kelly strappava via quasi due metri cubi di contrafforte ad ogni passata dell'escavatore, e i Dumptor sono le macchine per il movimento di masse di terra più veloci che finora siano mai state concepite. Dennis mantenne sgombra la strada di servizio con la pala meccanica, e Tom e Chub fecero a turno su un trattore che avevano staccato dalla tramoggia, per supplire alla mancanza della D-7, oppure passavano gli intervalli col teodolite e le paline.
Peebles si occupava delle ricognizioni sul terreno, e nelle ore di riposo si dava da fare a installare la sua officina da campo, mantenendo in funzione il suo sistema di raffreddamento dell'acqua e gli alimentatori delle batterie, e predisponendo la forgia e i banchi per le saldature. Gli operatori si occupavano personalmente della manutenzione e del rifornimento di carburante per le loro macchine, e si perse assai poco tempo. Massi e marna venivano rimossi dalla cavità sempre più ampia sul fianco del monticello centrale — avrebbero dovuto asportarne almeno un terzo — e venivano trasportati fino ai bordi della palude, che si trovava di traverso all'estremità più bassa della pista progettata, sui trattori da carico che ronzavano come calabroni, le grosse ruote motrici che sollevavano grandi nubi di polvere. Il materiale veniva scaricato e poi sparpagliato e compattato dalla lamentosa pala meccanica a due tempi. Quando il fango cominciò ad ammucchiarsi davanti alla zona da riempire, fu tolto di mezzo da cariche di dinamite di potenza ridotta, in posizioni accuratamente calcolate, e i crateri riempiti di rocce, pietre trasportate dalle rovine, e il tutto coperto di marna che era facile compattare, la quale veniva prelevata con la pala, e vagliata, da un banco di minerale pulito.
Quand'ebbe messo a punto la sua officina, Peebles salì la collina per andare a prendere la D-7. Quando ci arrivò, restò lì per un po' a grattarsi la testa, poi, scrollandola, ridiscese il pendio e andò a cercare Tom.
«Ho dato un'occhiata alla D-7», disse, dopo aver fatto cenno che bloccasse il suo lamentoso due tempi.
Tom scivolò a terra. «Cos'hai trovato?» gli chiese.
Peebles tese il braccio. «Una lista lunga così». Scosse la testa. «Tom, cos'è accaduto, veramente, lassù?»
«Il regolatore è impazzito e la D-7 è scappata via», fu pronto a replicare Tom.
«Già, ma...» Per un lungo istante, Peebles guardò Tom negli occhi. Poi sospirò. «Va bene, Tom. Ad ogni modo, non posso far niente, finché è lassù. Dovremo riportarla qui e mi servirà un trattore per rimorchiarla. Ma prima ancora di metterci in moto, bisognerà che qualcuno mi dia una mano a riparare il cingolo destro, che è uscito dai rulli perché il bullone di regolazione del tendicingolo è saltato».
«Ohhh, ecco perché non è riuscita ad ammazzare il ragazzo, col solo motorino di avviamento. Il cingolo non ce la faceva proprio a girare, eh?»
«È un miracolo che sia arrivata così lontano. Il cingolo è proprio bloccato. Ha marciato direttamente sui rulli... Ma questo, non è neppure metà del danno. La testata è partita, come ha detto Harris, e Dio solo sa cosa ci troverò dentro quando l'aprirò».
«Perché darsi tanto da fare?»
«Cosa?»
«Possiamo farcela lo stesso, senza la D-7», sbottò fuori Tom. «Lasciala dove si trova. Hai un sacco di altre cose da fare».
«Ma perché?»
«Be', non c'è motivo di darsi tanta pena».
Peebles si grattò il lato del naso, e disse: «Ho una nuova testata, i perni per i cingoli, perfino un motorino d'avviamento di riserva. E ho gli attrezzi per fabbricare i pezzi di ricambio che non abbiamo». Gli indicò la lunga fila dei mucchi di terra che i Dumptor avevano continuato a scaricare mentre parlavano. «Hai una pala impegnata per spianare il terreno, e non venirmi a dire che un'altra non ti farebbe comodo. Dovrai fermare uno o due Dumptor, se continuerai così».
«Avevo già previsto la risposta nel momento stesso in cui ho aperto bocca», disse Tom, imbronciato. «Andiamo».
Salirono sul trattore e si allontanarono, fermandosi un attimo sulla spianata vicino alla spiaggia per prender su un cavo e alcuni attrezzi.
Daisy Etta era ferma sul ciglio dell'altopiano, guardando furiosa dall'alto dei suoi fari la morbida distesa del prato che conservava ancora l'impronta di un giovane corpo e quelle dei barellieri. Complessivamente, l'aspetto della macchina era assai malandato: c'erano graffi sulla sua vernice grigio-oliva e il metallo che era affiorato, lucido, dai graffi, era già diventato d'un rosso smorto per la prima ruggine. E malgrado il terreno fosse piano, la D-7 non era nella giusta posizione, poiché il cingolo destro era uscito dai rulli, in basso, e la macchina era perciò lievemente inclinata, come un uomo che si fosse rotto un'anca. E qualunque cosa fosse quella sorta di consapevolezza dentro di lei, pareva rimuginare il tipico paradosso del bulldozer che ogni operatore si trova a sperimentare, mentre impara a conoscere la propria macchina.
Per il principiante, questo paradosso è la cosa più difficile da capire. Un bulldozer è una centrale elettrica semovente, un ciclope di fracasso e solidità, la cosa più vicina all'incarnazione di una forza «irresistibile». Il principiante, in preda alla soggezione, e pieno delle immagini d'invincibili carri armati impresse nella sua mente da tanti cinegiornali, accetta tutto senza scomporsi, e con una sensazione di potere illimitato tratta tutti gli ostacoli allo stesso modo, non conoscendo la fragilità del nucleo in ghisa del radiatore, la mortalità dell'acciaio al manganese temprato, la fragilità del metallo antifrizione surriscaldato, e soprattutto la facilità con cui una simile macchina può sprofondare nel fango. Quando smonta giù per dare un'occhiata alla macchina che in venti secondi ha ridotto a un inutile rottame, e che mezzo minuto prima procedeva su un terreno dove adesso i cingoli sono scomparsi, prova quella sensazione mista di disappunto e colpevolezza che sopraffà qualunque uomo che abbia compiuto un errore di valutazione.
Così com'era, la Daisy Etta era rovinata, inutile. Quei bipedi molli e cocciuti l'avevano costruita, e se erano uguali a qualunque altra razza in grado di costruire macchine, avrebbero ben potuto occuparsi di essa. La capacità d'invertire la tensione di una molla, o di piegare una leva dei comandi, oppure di ridurre a zero la frizione fra un dado e una rondella, non era sufficiente a riparare l'incrinatura della testata d'un cilindro né i cuscinetti che si erano saldati all'albero di un motorino d'avviamento surriscaldato.
Era stato necessario imparare una lezione. Ed era stata imparata. Daisy Etta sarebbe stata riparata e la prossima volta — be', per lo meno avrebbe saputo i suoi punti deboli.
Tom fece girare la macchina a due tempi, e si portò vicino alla D-7 con l'orlo della sua lama che quasi toccava uno dei bracci di spinta di Daisy Etta. Scesero, e Pebbles si chinò sul cingolo destro bloccato.
«Stai attento», disse Tom.
«A cosa?»
«Oh... niente, immagino». Girò intorno alla macchina, esaminando con occhio esperto il telaio e le varie attrezzature. D'improvviso, fece un passo avanti e afferrò il rubinetto del serbatoio del carburante. Era chiuso. Lo aprì: ne sgorgò un liquido dorato. Tornò a chiuderlo, si arrampicò sulla macchina e aprì il tappo in cima al serbatoio. Tirò fuori l'asticciola misuratrice, la ripulì sulla piega del ginocchio, tornò a infilarla dentro e a tirarla fuori.
Il serbatoio era pieno per più di tre quarti.
«Cosa succede?» chiese Peebles, fissando incuriosito il volto teso di Tom.
«Peeby, ho aperto il rubinetto per svuotare questo serbatoio. L'ho lasciato col carburante che scorreva sul suolo. Si è chiusa da sola».
«Suvvia, Tom, ti stai lasciando ossessionare da questa faccenda. Credi di averlo fatto. Ho visto una valvola del tubo d'alimentazione chiudersi da sola, quand'è molto consumata, ma soltanto perché la pompa del carburante la fa chiudere quando il motore è in funzione».
«La valvola del tubo d'alimentazione?» Tom tirò su il seggiolino e guardò. Una sola occhiata fu sufficiente a mostrargli che era aperta.
«Ha aperto anche questa».
«Va bene... va bene. Non guardarmi così!» Peebles era prossimo all'esasperazione quanto mai avrebbe potuto esserlo un tipo come lui. «Che differenza fa?»
Tom non rispose. Non era il tipo d'uomo che, trovandosi davanti a qualcosa al di là della sua comprensione, comincia a dubitare del suo proprio equilibrio mentale. Il suo era un tenace insistere che quanto aveva visto e sentito era realmente accaduto. In lui non c'era neppure il minimo sospetto di essere impazzito, come avrebbero potuto credere uomini più sensibili. Tom non dubitava di se stesso, né delle prove che aveva, e così poteva tener la mente sgombra da dubbi e impegnarla completamente alla ricerca dei logoranti «perché» di un problema. Sapeva per istinto che condividere con chiunque altro avvenimenti «incredibili», anche se realmente accaduti, significava soltanto porre altri ostacoli sul proprio cammino. Così, mantenne il suo silenzio da ostrica e continuò a investigare con cocciuta attenzione.
Il cingolo uscito dai rulli era talmente teso sulle flange che non si poteva certo pensare di togliere il perno principale e aprirlo. Bisognava rimetterlo al suo posto così com'era: un'operazione assai delicata, poiché una forza applicata nella direzione sbagliata sarebbe bastata a far saltar fuori del tutto il cingolo. Per complicare le cose, la lama della D-7 era al suolo, e sarebbe stato necessario sollevarla, prima che si potesse manovrare con la macchina, ma col motore fermo il sub argano era fuori uso.
Peebles prelevò sei metri di cavo da 12 mm. da dietro il bulldozer più piccolo, e fece un buco nel terreno, sotto la lama della D-7, infilandovi l'occhiello del cavo d'acciaio. Arrampicatosi sopra, Peebles infilò l'occhiello sul grosso gancio da rimorchio imbullonato sotto il muso della ruspa. Gettò l'altra estremità del cavo per terra, davanti alla macchina. Tom salì sull'altro bulldozer e sedette al posto di guida, pronto a rimorchiare. Peebles agganciò l'estremità libera del cavo al timone della macchina di Tom e saltò in groppa alla D-7. La mise in folle, disinnescò la frizione, e mise il comando della lama nella posizione di «libero», poi alzò un braccio.
Tom era appollaiato sul seggiolino della sua macchina, guardando indietro, e si mosse pian piano, filando il cavo. Questo si raddrizzò, tendendosi, e così facendo costrinse la lama del D-7 ad alzarsi. Peebles mise il comando della lama in posizione di «blocco» e fece cenno a Tom di mollare. Il cavo si afflosciò e ricadde, scostandosi dalla lama.
«Il sistema idraulico è a posto, ad ogni modo», gridò Peebles, mentre Tom toglieva il gas. «Vai avanti e prova a tirare verso destra, più che puoi, ma senza impigliare il cavo nel cingolo. Vediamo se riusciamo a far tornare al suo posto questo cingolo».
Tom arretrò, sterzò tutto a destra e tese il cavo quasi ad angolo retto rispetto alla macchina più grande. Peebles bloccò col freno il cingolo destro della D-7 e liberò entrambe le frizioni di direzione. Adesso il cingolo sinistro poteva girare liberamente, il destro non poteva girare affatto.
Tom avanzava con la marcia più bassa possibile, dando soltanto un quarto di gas, cosicché la sua macchina si muoveva appena, prendendo su di sé tutto lo sforzo. La D-7 ebbe una leggera scossa, poi cominciò a ruotare sul perno destro teso, mentre una tremenda pressione per metro quadrato veniva esercitata sul davanti del cingolo, dove il tendicingolo era sollecitato al massimo. Peebles lasciò andare il freno destro col piede, poi tornò a premerlo, con una serie di abili scatti dettati dalla pratica. Il cingolo in questo modo si spostava di pochi centimetri, per poi fermarsi di nuovo, con la forza che veniva applicata alternativamente davanti e di lato, sollecitando il cingolo a ritornare al suo posto. Poi, un ultimo sussulto, e il cingolo fu di nuovo ben teso sui cinque rulli, i due portacingoli, la ruota dentata motrice e il tendicingolo.
Peebles scivolò giù e cacciò la testa fra la ruota dentata e il portacingoli posteriore, sbirciando in basso e di lato per accertare che non ci fossero flange o boccole dei rulli rotte. Tom si avvicinò e lo tirò fuori per il fondo dei calzoni. «Avrai tutto il tempo di farlo quando l'avrai in officina», gli disse, mascherando il suo nervosismo. «Pensi che girerà?»
«Girerà. Non ho mai visto un cingolo in quelle condizioni tornare al suo posto con tanta facilità. Perdinci, è come se stesse cercando di aiutarci!»
«A volte lo fanno», commentò Tom, asciutto. «Farai meglio a salir tu su quell'altro dozer, per rimorchiarla, Peeby. Io rimango con questa».
«Come preferisci».
E si avviarono con prudenza lungo il pendio, con Tom che teneva appena i freni, lasciando che l'altra macchina tirasse. E così portarono Daisy Etta giù fino all'officina all'aperto di Peebles, dove le tolsero la testata, il motorino d'avviamento, strapparono il ferodo di una frizione bruciata, la resero in pratica impotente...
E poi la rimontarono.
«Ti dico che è stato un assassinio a sangue freddo», dichiarò Dennis, scaldandosi. «E noi siamo qui a prender ordini da un tipo come quello. Cosa abbiamo intenzione di fare?» Erano accanto al refrigeratore — Dennis aveva portato la sua macchina fin là per accostarsi a Chub.
Il sigaro di Chub andava su e giù come un semaforo in corto circuito. «Be', per ora lasciamo perdere. La squadra degli asfaltatori sarà qui tra una settimana, o due, e potremo fare rapporto. Inoltre, io non so cosa sia successo lassù, più di quanto non lo sappia tu. Nel frattempo, abbiamo una pista da costruire».
«Non sai cos'è successo là sopra? Chub, sei un tipo sveglio. Sveglio quel tanto che basta da dirigere questo lavoro meglio di Tom Jaeger, anche se non fosse pazzo. E sei di certo sveglio quel tanto che basta a non credere a tutte quelle balle sulla D-7 che sarebbe scappata da sotto il sedere di quella scimmia unta e bisunta. Ascolta...» Si sporse in avanti e batté la mano sul petto di Chub. «Ha detto che è stato il regolatore. Ho visto io stesso quel regolatore e ho sentito il vecchio Peebles dire che era assolutamente a posto. È vero che il tirante dell'acceleratore era uscito dalla sua forcella... ma tu sai cosa fa una di quelle macchine quando esce fuori il tirante. Va al minimo di giri, o si ferma del tutto. Di certo non scappa via».
«Be', forse sarà così, ma...»
«Ma niente! Un tipo che commette un omicidio non è sano di mente. Se l'ha fatto una volta, potrebbe rifarlo, e io non voglio che càpiti a me».
Due cose attraversarono la mente ferma ma non troppo brillante di Chub a quelle parole. Una era che Dennis, che non riusciva a scuotersi di dosso, stava cercando di fargli fare qualcosa che lui non voleva; l'altra era che sotto tutto quel discorso, Dennis aveva una fifa del diavolo.
«Cosa vuoi fare... chiamare lo sceriffo?»
Dennis se ne uscì in una risatina divertita: una delle ragioni per cui era così difficile scrollarselo di dosso. «Ti dico io quello che possiamo fare. Fintanto che abbiamo te qui, non sarà lui il solo a conoscere il lavoro. Se smetteremo di prendere ordini da lui, tu potrai darli altrettanto bene, o anche meglio. E non ci sarà nulla che potrà fare in proposito».
«Maledizione, Dennis», sbottò Chub all'improvviso, esasperato. «Cosa credi di fare? Di darmi le chiavi del regno o qualcosa del genere? Perché mi vuoi veder comandare qui?» Si alzò in piedi. «Supponi che facessimo quello che hai detto. Credi che così la pista per l'aeroporto verrebbe costruita più in fretta? Che mi farebbe trovare più soldi in busta-paga? Cosa pensi che io voglia... la gloria? Grandi occasioni come questa io preferisco perderle. Credi che io ci tenga davvero a dire a questo branco di bifolchi quel che devono fare, quando lo farebbero in ogni caso?»
«Ma, Chub... io non pianto grane solo per il gusto di farlo. Non è affatto questo che intendevo. Ma se non facciamo qualcosa con quel tipo, nessuno di noi potrà dirsi al sicuro. Non riesci a mettertelo in testa?»
«Ascoltami bene, chiacchierone. Se un uomo lavora sodo, non ha il tempo di causare guai. Questo vale per Tom... puoi tenerlo bene a mente. Ma vale anche per te. Ora, risali subito su quel trattore e torna alla cava di marna». Dennis, colto di sorpresa, girò sui tacchi e si avviò verso la sua macchina.
«È un peccato che tu non possa scavare la terra con la bocca», disse ancora Chub, mentre l'altro si allontanava. «Avrebbero potuto lasciarti qui a fare questo lavoro tutto da solo».
Chub si avviò lentamente verso la spianata, colpendo con una palina i ciottoli e imprecando tra sé. Era soprattutto un uomo semplice, e credeva nell'efficacia di un approccio diretto, per ogni cosa. Gli piacevano quei lavori in cui era in grado di fare tutto quello che gli si chiedeva, senza che saltassero fuori imprevisti a complicare le cose. Da lunghissimo tempo faceva lavori di spianamento come operatore e come caposquadra ai rilevamenti, e brillava per una cosa: era sempre estraneo alle cricche e alle lotte intestine, che sono il pane quotidiano per la maggior parte degli uomini che lavorano nel campo delle costruzioni. Era turbato e preoccupato per le pugnalate alle spalle che aveva visto vibrare, in tutti i lavori a cui aveva preso parte. Per farla spiccia, era disgustato, e le faccende subdole lo lasciavano confuso e sconcertato. Era abbastanza stupido da permettere che la sua onestà di fondo si manifestasse nelle parole e nelle azioni, e aveva imparato che una completa onestà nel trattare con gli uomini più alti o più bassi in grado di lui riusciva invariabilmente dolorosa a tutte le parti in causa, ma non aveva la prontezza di spirito di agire altrimenti, e non ci provava neppure.
Se un dente gli faceva male, se lo faceva strappare appena possibile. Se un sovrintendente lo trattava male, quel sovrintendente si sentiva dire esattamente qual era il problema, e se la cosa non gli piaceva, be', c'erano sempre altri lavori sul mercato. Se le pressioni e le critiche gli davano fastidio, lui l'aveva sempre detto esplicitamente, e se n'era andato. Oppure, se ciò che aveva detto era stato accettato, era rimasto; questo suo modo di reagire ad ogni cosa che interferiva col suo lavoro gli aveva guadagnato un bel po' di rispetto da parte degli uomini sotto i quali aveva lavorato. E così, in questo caso, non ebbe esitazioni a scegliere la sua linea d'azione. Solo che... come si fa a chiedere a un uomo se è un assassino?
Trovò il caposquadra con una grossissima chiave inglese in mano, intento a stringere il nuovo tendicingolo che avevano sistemato sulla D-7.
«Ehi, Chub! Lieto di vederti. Ora infiliamo un pezzo di tubo sopra quest'affare, così che possa stringere al massimo». Chub andò a prendere il tubo, lo infilarono sopra l'estremità del manico della chiave inglese da un metro e venti e tirarono finché il sudore non scese a rivoli lungo le loro schiene, con Tom che di tanto in tanto controllava il gioco del cingolo con un piede di porco. Alla fine, dichiarò che andava bene, e restarono li, sotto il sole, col fiato grosso.
«Tom», ansimò Chub, «hai ucciso il portoricano?»
Tom alzò la testa di scatto, come se qualcuno gli avesse scottato il collo con un mozzicone di sigaretta.
«Perché», continuò Chub, «se l'hai fatto, non puoi continuare a dirigere questo lavoro».
Tom replicò: «È di cattivo gusto scherzare su una faccenda del genere».
«Lo sai che non sto scherzando. Be'... l'hai fatto?»
«No!» Tom si sedette su un barilotto, e si asciugò il viso con un fazzolettone. «Cosa ti prende?»
«Volevo soltanto saperlo. Alcuni ragazzi si preoccupano».
Tom socchiuse gli occhi. «Alcuni dei ragazzi, eh? Credo di aver capito. Ascoltami, Chub. Rivera è stato ucciso da quell'affare laggiù». Indicò col pollice la D-7 alle sue spalle, che adesso era praticamente pronta, mancando soltanto il ripristino dell'orlo tagliente su un angolo della lama. Peebles stava preparando gli attrezzi, quando Tom parlò: «Se vuoi dire che sono stato io a farlo salire su quella macchina prima che venisse scagliato via, la risposta è sì. In questo senso io l'ho ucciso, e non credere che non ne senta il peso. Avevo avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, là sopra, ma non riuscivo a capire cosa e non pensavo certo che qualcuno si sarebbe fatto male».
«E cosa c'era di sbagliato?»
«Non lo so ancora». Tom si alzò in piedi. «Sono stufo di menare il can per l'aia, Chub, e non me ne importa più molto di quello che pensano gli altri. C'è qualcosa di sbagliato in quella D-7, qualcosa che non è stato costruito dentro di lei. Non ci sono bulldozer migliori, ma qualunque cosa le sia successo là, sul poggio, l'ha fatta diventare strana. Adesso, considerati pure libero di pensare quello che vuoi, e immagina qualunque storia ti piacerà da raccontare ai ragazzi. Intanto, puoi passar parola: nessuno guiderà quella macchina, io soltanto la guiderò. Capito? Nessun altro!»
«Tom...»
Tom perse la pazienza. «Non ho nient'altro da dire! Se qualcun altro dovesse farsi male, quello sarò io, capito? Che altro vuoi?»
Si allontanò a grandi passi, furibondo. Chub lo seguì con lo sgaurdo, e dopo qualche istante si tolse il sigaro di bocca. Soltanto allora si accorse di averlo spezzato in due con un morso. Aveva ancora in bocca l'altro mozzicone. Lo sputò, e rimase li, scuotendo la testa.
«Come va, Peeby?»
Peebles sollevò gli occhi dalla saldatrice. «Ciao, Chub, l'avrò pronta per te tra venti minuti». Valutò la distanza fino alla grossa macchina. «Mi servirebbero dodici metri di cavo», disse, guardando i festoni dei cavi che pendevano da dietro la saldatrice. «Non voglio portare un trattore quassù per spostare quell'affare, e non me la sento di avviare la D-7 solo per portarla abbastanza vicino...»
Separò il cavo degli elettrodi e lo buttò da parte, si avvicinò al trattore srotolando dal braccio il cavo di massa. Finì di sbrogliarlo e afferrò il morsetto quando fu a due metri e mezzo dalla macchina. Prendendolo con la sinistra, tirò con forza, allungando la destra per agguantare il vomere della D-7, cercando di avvicinarlo quanto bastava per fissarlo alla macchina.
Chub restò lì a guardarlo, masticando il sigaro, gingillandosi distrattamente coi comandi del saldatore ad arco. Premette il pulsante di avvio, e il motore a sei cilindri rispose con un ronzio. Girò pigramente la manopola che regolava l'intensità della corrente, fece scattare l'interruttore del generatore dell'arco...
Un'incredibile scarica d'energia, sottile, bianco-azzurra, cauterizzante, partì dai portaelettrodi ai suoi piedi, si allungò per quindici metri fino a raggiungere Peebles, le cui dita avevano appena toccato il vomere. La testa e le spalle di Peebles furono circondate per un secondo da un'aureola violetta, poi Peebles si piegò in due e crollò al suolo. Un interruttore scattò dietro al quadro dei comandi del saldatore, ma troppo tardi. La D-7 si mosse lentamente all'indietro, senza che il motore fosse acceso, sul terreno piano, fino a fermarsi contro un rullo compressore. Chub aveva perso il sigaro, e non se n'era accorto. Stringeva in bocca le nocche della mano destra, i denti affondati nella carne. Gli occhi gli erano quasi schizzati dalle orbite; si rannicchiò su se stesso, tremante, spaventato a morte. Perché il vecchio Peebles era stato quasi troncato in due dal fuoco.
Lo seppellirono accanto a Rivera. Dopo, nessuno ebbe voglia di parlare; il vecchio era stato assai più vicino a tutti loro di quanto si fossero resi conto fino a quel momento. Harris, per una volta tanto nella sua vita di bevitore allegro e spensierato, era serio e silenzioso, e il passo di Kelly pareva aver perso un po' della sua agilità. La bocca di Dennis agitò per ore, in silenzio, mentre lui rimuginava mordendosi il labbro finché non fu gonfio e molle. Al Knowles pareva più o meno indifferente, come c'era da aspettarsi da un uomo che aveva meno cervello di una gallina. Chub Horton si era ripreso, dopo un paio d'ore, ed era tornato quasi del tutto se stesso. E Tom Jaeger era in preda a una rabbia nera, turbinante, contro l'ignota maledizione che aveva colpito il campo.
Continuarono a lavorare. Non c'era altro da fare, L'escavatore mantenne il suo ritmico movimento di ondeggio e scavo, di ondeggio e scarico, e i Dimptor ululavano avanti e indietro fra l'escavatore e ciò che rimaneva dell'acquitrino. L'estremità superiore della pista fu sgomberata dalla vegetazione; Chub e Tom piantarono le paline e Dennis cominciò il lungo lavoro di livellamento e di riempimento della superficie gibbosa col suo vaglio. Harris lo seguiva con l'altra pala, un taglio più indietro. La forma della pista emerse dal terreno, e poi quella della pista di rullaggio, parallela; passarono, così, tre giorni.
L'orrore della morte di Peebles si smaltì quel tanto che bastava perché potessero parlarne, ma ben poco di quelle conversazioni fu di aiuto a qualcuno. Tom faceva tre turni, con ogni tipo di lavoro, dando il cambio a Kelly per permettergli di riposare dopo ore di lavoro sull'escavatore, facendo alcuni giri con il vaglio, e passando ore su un Dumptor. Il suo braccio si stava rimarginando lentamente, ma bene, e malgrado ciò lavorava con cupa tenacia, ricavando una sorta di perverso piacere dal dolore che ciò gli procurava. Ogni uomo al lavoro badava alla propria macchina con la sollecitudine di una madre col suo primogenito; un guasto grave sarebbe stato disastroso, privi com'erano adesso di un meccanico altamente qualificato.
L'unica concessione che Tom si permise, dopo la morte di Peebles, fu di bloccare Kelly un pomeriggio, chiedendogli tutte le informazioni possibili sulla saldatrice. Una parte del passato piuttosto vario e complesso di Kelly era trascorso in un istituto tecnico, dove aveva studiato elettrotecnica e le donne. Aveva imparato un po' della prima, e quanto bastava delle seconde, per farsi buttar fuori. Così, contando sulla possibilità che potesse saper qualcosa sull'innaturale funzionamento dell'arco elettrico, Tom lo tempestò di domande.
Kelly si sfilò i guanti dagli alti bracciali e si servì di essi per scacciare una mosca. «Che razza di arco era mai? Buon Dio, mi hai incastrato. Hai mai sentito di una saldatrice che abbia fatto una cosa simile, prima d'oggi?»
«No. Una saldatrice, semplicemente, non ha quel genere di spinta. Ho visto un uomo prendersi in pieno una scarica da 400 ampere, una volta, e malgrado sia finito lungo disteso, non gli ha fatto nessun male».
«Non è l'amperaggio che uccide la gente», lo corresse Kelly. «È il voltaggio. Il voltaggio è ciò che dà la spinta alla corrente, sai. Prendi una qualsiasi quantità d'acqua, chiamala amperaggio. Se te la buttassi in faccia con un secchio, non ti farebbe male. Ma se te la scaraventassi addosso in un getto sottile con una pompa, allora sì, che la sentiresti. E se te la proiettassi addosso attraverso i minuscoli fori di un ugello a iniezione, a circa seicento chili di pressione, ti farebbe uscire il sangue dai pori. Ma il generatore di una saldatrice ad arco non è fatto per accumulare quel valore di voltaggio. Non vedo come un qualunque corto circuito attraverso l'armatura o le spire del campo magnetico possa fare una cosa simile».
«Da quanto Chub ha detto, pare che si stesse gingillando col regolatore della corrente. Non credo che nessuno l'abbia toccato, poi. La scala graduata del regolatore era stata percorsa fino alla tacca che indica l'erogazione di una corrente bassa, neanche la metà rispetto al fondo-scala. E col regolatore messo in quel modo, non c'è abbastanza corrente neppure per fare una discreta saldatura con un elettrodo da un quarto di pollice, non parliamo poi di ammazzare qualcuno... o di far fare a una grossa macchina dieci metri all'indietro, sia pure su un terreno piano».
«Oppure, per generare un arco di quindici metri», aggiunse Kelly. «Ci vorrebbero migliaia di volt per generare un arco del genere».
«È possibile che qualcosa nella D-7 abbia attirato quell'arco? Voglio dire, supponi che quell'arco non sia stato proiettato dall'elettrodo, ma sia stato attratto dalla macchina? Ti dico che era calda ancora quattro ore dopo il fatto».
Kelly scosse la testa. «Mai sentito parlare di una cosa simile. Senti, giusto per definirli in qualche modo, chiamiamoli terminali a corrente continua, positivi e negativi, e poiché la teoria dice così, noi affermiamo che la corrente scorre dal negativo al positivo. Non può esserci un'attrazione in un elettrodo positivo più di quanta spinta ci sia in un elettrodo negativo. Capisci cosa voglio dire?»
«Non potrebbe esserci qualche condizione eccezionale che possa causare una specie di campo positivo di dimensioni spropositate? Voglio dire, un campo che risucchi tutto il flusso negativo in un colpo solo, facendolo schizzar fuori con forza travolgente sotto altissima pressione, come l'acqua della quale hai parlato, fuori da un ugello a iniezione?»
«No, Tom, proprio non funziona così, per quello che se ne sa. Comunque, non so. Ci sono cose dell'elettricità statica che nessuno capisce. Tutto quello che posso dire è che quanto è accaduto, è impossibile; e ammesso che sia accaduto, non potrebbe assolutamente aver ucciso Peebles. Ma tu sai meglio di me, che Peebles è morto».
Tom girò lo sguardo verso l'estremità superiore della pista, dove si trovavano le due tombe. Per un attimo parve chiaramente turbato, e pieno di rabbia; si voltò e si allontanò senza altre parole. E quando si avvicinò alla saldatrice, per darle un'altra occhiata, Daisy Etta se n'era andata.
Al Knowles e Harris se ne stavano accovacciati insieme accanto al refrigeratore dell'acqua.
«Va male», disse Harris.
«Mai visto niente di simile», dichiarò Al. «Il vecchio Tom è tornato dall'officina inferocito come un bufalo. "Dov'è andata la Sette? Dov'è la Sette?" Non l'avevo mai sentito sbraitare così».
«L'aveva presa Dennis, no?»
«Lui, credo».
Harris disse: «Non molto tempo fa, era già venuto a sfogarsi con me, Dennis. Chub gli aveva riferito ciò che Tom aveva detto: che tutti dovevano starsene lontani da quella macchina. Dennis era furioso, quasi isterico. Ha detto che Tom stava andando troppo in là con questa faccenda. Ha detto che con tutta probabilità c'era qualcosa sulla D-7 che Tom non voleva che scoprissimo. Qualcosa che potrebbe incriminarlo. Dennis è pronto a dichiarare che Tom ha ammazzato il ragazzo».
«Tu credi che l'abbia fatto, Harris?»
Harris scosse la testa. «Conosco Tom da troppo tempo per pensare una cosa simile. Se non vuol dirci cosa veramente è accaduto lassù sul poggio, avrà una buona ragione per farlo. Come mai Dennis è venuto a prendere il bulldozer?»
«Gli è scoppiato un pneumatico anteriore al vaglio. È tornato qui per prendere un'altra macchina, forse un Dumptor. Ha visto la D-7 là, pronta a partire. È rimasto a guardarla un po', imprecando contro Tom. Ha detto che era stufo di rompersi i reni sugli altri trabiccoli e che il lavoro lo portasse, se, tanto per cambiare, ora non si sarebbe preso una macchina capace di marciare sul serio. Gli ho detto che Tom avrebbe strepitato come l'inferno quando l'avesse scoperto. Ma lui ha ribattuto che aveva ancora un paio di cosette da dire su Tom».
«Non credevo che avesse tanto fegato da prendere quella macchina».
«Ah, era proprio fuori di sé, accecato dalla rabbia».
Alzarono gli occhi di scatto quando videro Chub arrivare di corsa, ansimante. «Ehi, ragazzi, venite. Faremo meglio a salir su da Dennis».
«Cosa c'è che non va!» chiese Harris, alzandosi in piedi.
«Tom mi è passato vicino un minuto fa, pareva l'incarnazione della collera divina. Era diretto alla palude che stiamo bonificando. Gli ho chiesto cos'era successo, e mi ha detto che Dennis aveva preso la Sette. Ha detto anche che Dennis parlava sempre di assassinio, e che se ne sarebbe preso una dose completa, per essersi messo a scherzare con quella macchina». Chub sgranò gli occhi, e si umettò le labbra intorno al sigaro.
«Oh-oh», disse Harris, senza scomporsi. «È il tipo di discorso sbagliato da farsi proprio adesso».
«Non penserai che...»
«Oh, suvvia!»
Videro Tom prima ancora di aver fatto metà percorso. Camminava lentamente, a testa bassa. Harris gridò. Tom sollevò il viso, si fermò, e restò lì in una posa strana, quasi stesse per crollare al suolo.
«Dov'è Dennis?» sbraitò Chub.
Tom attese fino a quando non lo ebbero quasi raggiunto, poi sollevò fiaccamente una mano e indicò col pollice dietro di sé. Il suo viso era verde.
«Tom, è...»
Tom annuì, barcollò. La sua mascella di granito era molle.
«Al, resta con lui. Sta male. Harris, andiamo».
Tom fu colto da un accesso di vomito. Un violento accesso. Al rimase a guardarlo a bocca aperta, affascinato.
Chub e Harris trovarono Dennis. Era spiaccicato su un tratto di terreno di almeno quattro metri quadrati, tritato e sbatacchiato. Daisy Etta era scomparsa.
Sulla spianata, si misero seduti accanto a Tom, mentre Al Knowles prendeva un Dumptor e si allontanava rombando per andare a prendere Kelly.
«L'avete visto?» chiese dopo un po' Tom, con voce smorta.
Harris annuì: «Sì».
L'ululante Dumptor tornò indietro in una grande nuvola di polvere, con Kelly ai comandi e Al appeso alla sponda del cassone, tenendovisi stretto come se la morte aleggiasse su di lui.
Kelly balzò a terra e corse verso Tom.
«Tom... cos'è questa storia? Dennis morto? E tu... tu...»
Tom sollevò lentamente la testa, il suo volto lungo si rinsaldò, una luce si accese improvvisa nei suoi occhi. Fino a quel momento non gli era neppure passato per la mente ciò che quegli uomini avrebbero potuto pensare.
«Io... cosa?»
«Al dice che sei stato tu a ucciderlo».
Gli occhi di Tom guizzarono in direzione di Knowles, e Al trasalì come se quell'occhiata l'avesse frustato sul viso.
Harris chiese: «Che cosa hai da dire, Tom?»
«Niente. È stato ucciso dalla Sette. L'hai visto tu stesso».
«Sono stato dalla tua parte per tutto questo tempo», replicò Harris, scandendo le parole. «Ho accettato tutto quello che mi hai detto e ci ho creduto».
«Questa è troppo forte per te?» chiese Tom.
Harris annuì. «Troppo forte, Tom».
Tom guardò quella cerchia di volti cupi, e scoppiò in un'improvvisa risata. Si alzò in piedi, appoggiò la schiena contro un alto cassone. «Cosa avete in mente di fare in proposito?»
Vi fu silenzio. «Pensate che sia andato là, abbia sbattuto giù dalla macchina quel chiacchierone e gli sia passato sopra?» Altro silenzio. «Ascoltate, sono salito lassù e ho visto quello che avete visto voi. Era morto prima che ci arrivassi. Non vi va bene neanche questa?» Fece una pausa e si leccò le labbra. «Così, dopo averlo ucciso, sono salito sulla macchina e l'ho portata lontana quanto bastava perché non vi fosse possibile né vederla né sentirla quando foste arrivati là. E poi mi sono fatto spuntare un paio di ali e sono tornato in volo, e così ero già a metà strada da qui quando mi avete incontrato... dieci minuti dopo che avevo parlato a Chub, prima di andarci!»
Kelly chiese, vagamente: «E la D-7?»
«Be'», disse Tom, in tono aspro rivolto ad Harris, «c'era, forse, la Sette quando tu e Chub siete andati e avete visto Dennis?»
«No...»
Chub all'improvviso si batté la mano sul fianco: «Avresti potuto spingerla dentro la palude, Tom».
Tom replicò, rabbioso: «Sto sprecando il mio tempo. Voi ragazzi sapete già tutto. Perché insistete a farmi domande, allora?»
«Prenditela con calma» disse Kelly. «Vogliamo soltanto i fatti. Cos'è veramente accaduto? Hai incontrato Chub e gli hai detto che Dennis si sarebbe fatto ammazzare, se si fosse messo a pasticciare con quella macchina. Esatto?»
«Esatto».
«Poi, cosa?»
«Poi la macchina lo ha ucciso».
Chub, con uno sforzo per esser paziente, chiese ancora: «Cosa intendevi dire, il giorno in cui Peebles è morto, quando hai accennato a qualcosa che aveva reso strana la D-7 lassù sul poggio?»
Tom replicò, furioso: «Intendevo dire quello che ho detto. Voi ragazzi avete deciso di mettermi in croce, per questo, e non posso impedirvelo. Bene, ascoltatemi. Qualcosa si è impossessato di quella Sette. Non so cosa sia, e credo che non lo saprò mai. Pensavo che, dopo che si era fatta a pezzi da sola, fosse finita. Mi era venuta l'idea che, dopo averla smontata e resa innocua, avremmo dovuta lasciarla così. Avevo maledettamente ragione, ma adesso è troppo tardi. Ha ucciso Rivera e Dennis, e certamente ha avuto qualcosa a che fare con la morte di Peebles. E sono più che convinto che non si fermerà fintanto che ci sarà un solo essere vivo su quest'isola».
«Caspita!» esclamò Chub.
«Certo, Tom, certo», disse Kelly, con calma. «Quel trattore sta cercando di ucciderci. Ma non preoccuparti: lo prenderemo e lo smonteremo. Tu non preoccuparti più; andrà tutto bene».
«Proprio così», interloquì Harris. «Prenditela con calma, resta qui al campo per un paio di giorni, finché non ti sentirai meglio. Chub e il resto di noi ci occuperemo del tuo lavoro. Hai preso troppo sole».
«Siete davvero un bel branco di gente in gamba, ragazzi!» esclamò Tom, digrignando i denti, col più profondo sarcasmo. «Volete vivere?» gridò. «Andatevene subito via da qui, e lasciate alle ortiche quel vagabondo d'un bulldozer!»
«Quel vagabondo d'un bulldozer è in fondo alla palude dove tu l'hai cacciato», ringhiò Chub. Abbassò la testa e cominciò a muoversi. «Certo che vogliamo vivere. Il modo migliore per riuscirci è metterti in un posto dove non potrai uccidere nessun altro. Prendetelo!»
Balzò in avanti. Tom lo raddrizzò con un sinistro doppiato da un destro. Chub crollò al suolo, facendo perdere l'equilibrio ad Harris. Al Knowles corse verso una cassa di attrezzi e ne tirò fuori una chiave inglese a forma di mezzaluna, da trentacinque centimetri. Girò in tondo, tenendosi fuori tiro, e cercando di vibrare un colpo. Tom sferrò un diretto a Kelly, la cui testa parve ritrarsi come quella di una tartaruga, il pugno si limitò a sfiorarlo e Tom perse l'equilibrio. Harris, ancora inginocchiato, placcò le sue gambe; Chub lo colpì sul fondo della schiena con una robusta spallata, e Tom cadde lungo disteso, bocconi. Al Knowles, impugnando la chiave inglese con entrambe le mani, la sollevò come una mazza da baseball; mentre stava per colpire, Kelly allungò il braccio e gliela strappò dalle mani, e la usò a sua volta per colpire Tom con delicatezza dietro l'orecchio. Tom si accasciò al suolo privo di sensi.
Era tardi, ma sembrava che nessuno avesse voglia di dormire. Sedevano intorno alla lanterna a pressione, discorrendo di cose futili. Chub e Kelly erano impegnati in una svogliata partita a carte, dimenticandosi di segnare i punti. Harris girava su e giù, come un uomo chiuso in cella, e Al Knowles se ne stava accucciato accanto alla lanterna, gli occhi spalancati e vigili...
«Senti il bisogno di bere qualcosa», disse a un certo punto Harris.
«Dieci», annunciò uno dei giocatori.
Al Knowles fece: «Avremmo dovuto ucciderlo... Dovremmo ucciderlo adesso».
«Ci sono già stati troppi morti», replicò Chub. «Chiudi il becco». E, rivolto a Kelly: «Asso piglia tutto», e fece per raccattare le carte.
Kelly gli afferrò il polso e sogghignò: «Questo non era nei patti, ricordi?»
«Oh... è vero».
«Quanto tempo ci vorrà, ancora, prima che arrivi la squadra degli asfaltatori?» chiese Al Knowles, con voce tremula.
«Dodici giorni», disse Harris. «E sarà bene che portino da bere, e parecchio».
«Ehi voi, ragazzi».
Tacquero.
«Ehi!»
«È Tom», disse Kelly. «Tre punti per me, Chub».
«Vado a dargli un paio di calci sulle costole», disse Knowles, ma non si mosse.
«Ti ho sentito, sai», fece una voce nel buio. «Se non fossi legato come un salame...»
«Sappiamo tutti quello che faresti», lo rimbeccò Chub. «Di quante altre prove credi che abbiamo bisogno?»
«Chub, lascialo stare!» Era stato Kelly a intromettersi. Buttò giù le carte che aveva in mano e si alzò in piedi. «Tom, hai sete?»
«Sì».
«Siediti, siediti», intervenne Chub.
«Lascialo legato, là, che crepi», esclamò Al Knowles.
«Al diavolo!» Kelly andò a riempire una tazza e la portò a Tom. Il grosso georgiano era saldamente legato, i polsi uniti, e un doppio passaggio di corde tra i gomiti, dietro la schiena, cosicché le sue mani si trovavano inchiodate all'altezza del plesso solare. Anche le sue ginocchia e le caviglie erano legate. Era stata omessa soltanto l'idea di Knowles, di una corda supplementare dalle caviglie al collo.
«Grazie, Kelly». Tom trangugiò l'acqua con avidità, mentre l'altro gli reggeva la testa. «È buona». Bevve ancora. «Cosa mi ha colpito?»
«Uno dei ragazzi. Più o meno quando ci hai detto che la D-7 è indemoniata».
«Oh, già». Tom ruotò la testa e sbatté gli occhi per il dolore.
«Posso chiederti se, per te, abbiamo torto?»
«Kelly, qualcun altro dovrà finire ammazzato, prima che voi ragazzi vi svegliate?»
«Nessuno di noi pensa che ci saranno altri morti... adesso».
Anche gli altri, adesso, si avvicinarono. «Si è deciso a parlare sensato?» volle sapere Chub.
Al Knowles scoppiò a ridere. «Ah, ah! Adesso non ha più un'aria tanto pericolosa!»
Harris disse tutto d'un tratto: «Ar, finirò per tapparti la bocca con la pelle del tuo collo!»
«Sono forse il tipo di persona che s'inventa le storielle di fantasmi?»
«Non l'hai mai fatto che io sappia, Tom». Harris s'inginocchiò accanto a lui. «Così come non hai mai ucciso nessuno fino a oggi».
«Oh, vattene via, vattene via», sbuffò Tom, stancamente.
«Alzati e facci fuori», lo sbeffeggiò Al.
Harris si alzò in piedi e gli mollò un manrovescio sulla bocca. Al strillò, fece tre passi indietro e inciampò su un bidone di lubrificante.
«Ti avevo avvertito», disse Harris, quasi scusandosi. «Ti avevo avvertito, Al».
Tom interruppe quella confusione. «State Zitti!» sibilò. «STATE ZITTI!» tuonò.
Tacquero.
«Chub», chiese Tom, rapidamente, ma senza perder la calma. «Cosa hai detto che avrei fatto della Sette?»
«L'hai affondata nella palude».
«Sì. Allora, ascolta».
«Ascoltare cosa?»
«Fai silenzio e ascolta!»
Così, ascoltarono. Era un'altra notte immobile e senza vento, con una sottile falce di luna che appariva irreale in quel paesaggio argenteo, nero e ovattato. Soltanto il vago mormorio della risacca saliva dalla spiaggia, e da lontano, sulla destra, là dove si stendeva la palude, una rana scandalizzata gracidò la sua protesta per il modo in cui era stata maltrattata la sua tana di fango. Ma il suono che fece raggelare le ossa a tutti giungeva strisciante dal contrafforte dietro il loro accampamento.
Era lo staccato, inequivocabile, d'un motore d'avviamento.
«La Sette!»
«Esatto, Chub», disse Tom.
«È lo spettro di Dennis», gemette Al.
Chub sbottò: «Chiudi il becco, cervello di gallina!»
«Ha cambiato sul Diesel», annunciò Kelly, tendendo l'orecchio.
«Sarà qui fra un momento», disse Tom. «Sapete, ragazzi, non possiamo essere tutti pazzi, qui. Vi convincerete, adesso?»
«Ti piace, non è vero?»
«In un certo modo, si. Rivera aveva preso l'abitudine di chiamare quella macchina Daisy Etta,perché si dice de siete in spagnolo. E Daisy Etta vuole un uomo».
«Tom», intervenne Harris, «vorrei che tu la smettessi di blaterare. Mi innervosisci».
«Devo pure far qualcosa. Non posso scappare», sghignazzò Tom.
«Andiamo a darci un'occhiata», disse Chub. «Se non c'è nessuno sopra quel cingolato, ti libereremo».
«Molto cortese da parte vostra. Tornerete prima che lo faccia lei?»
«Torneremo. Harris, vieni con me? Prenderemo uno dei vagli. Possono correre più di una D-7. Kelly, tu e Al prendete l'altro».
«La macchina di Dennis ha un pneumatico del cassone a terra», disse la voce tremante di Al.
«Sfila il perno e taglia i cavi, allora!» gli ingiunse Kelly. «E muoviti!» Corse via spingendo Al davanti a sé.
«Buona caccia, Chub».
Chub si avvicinò e si chinò sul prigioniero: «Credo di dovermi scusare con te, Tom», gli disse.
«No, non devi. Io avrei fatto lo stesso. Adesso vai, se sei convinto di doverlo fare. Ma fai in fretta».
Harris aggiunse: «E tu non scappare, amico». Tom gli restituì la sbruffata, e un attimo dopo se n'erano andati.
Ma non tornarono subito. Non tornarono affatto.
Fu Kelly a ricomparire, di corsa, affannato, con Al Knowles alle calcagna; mezz'ora più tardi. «Al... dammi il tuo coltello».
Si mise al lavoro sulle corde. Aveva il volto teso.
«Ho visto una parte della scena, da qui», bisbigliò Tom. «Chub e Harris?»
Kelly annuì. «Non c'era nessuno sulla Sette, come avevi detto». Pronunciò queste parole come se non ci fosse nient'altro nella sua testa, come se il più rigido autocontrollo gl'impedisse di ripeterlo all'infinito.
«Ho visto le luci», continuò Tom. «Una macchina saliva obliquamente la collina. Ma quasi subito un'altra gli ha attraversato la strada, illuminando tutto il pendio».
«L'avevamo sentita col motorino al minimo lassù, da qualche parte», disse Kelly. «Vernice grigio-oliva, non potevamo vederla».
«Ho visto il vaglio ribaltarsi... oh, è rotolato quattro o cinque volte giù per la collina. Poi si è fermato, coi fari ancora accesi. E qualcosa l'ha colpito, facendolo rotolare di nuovo. Questo l'ha spento del tutto. Cosa l'ha fatto ribaltare la prima volta?»
«La Sette. Lassù in agguato, proprio alla sommità del pendio. Ha aspettato fino a quando Chub e Harris stavano per passare, venti, venticinque metri più sotto. Si è spinta oltre il ciglio e si è buttata giù a rotta di collo su di loro, con le frizioni staccate. Doveva viaggiare a cinquanta all'ora, quando li ha colpiti. Di fianco. Non hanno avuto una sola possibilità di salvarsi. Poi ha seguito il vaglio mentre rotolava giù dalla collina, e quando si è fermato, gli ha mollato un altro calcio».
«Vuoi che ti sfreghi le caviglie?» chiese Al.
«Tu? Sparisci dalla mia vista!»
«Ma, Tom...» uggiolò Al.
«Lascia perdere, Tom», disse Kelly. «Non siamo rimasti in numero sufficiente per continuare così. E tu, Al, stai attento a come parli, d'ora in avanti, capito?»
«Ah, sì, volevo dirvi tutto. Sapevo che non mentivi su Dennis, Tom... se soltanto mi fossi fermato a pensare. Ricordo quando Dennis ha detto che avrebbe portato fuori la D-7... Ricordi, Kelly? È andato a prendere la manovella, ha girato intorno alla macchina e l'ha infilata nel buco. L'aveva appena fatto, quando il motorino d'avviamento si è messo in moto. "Ma guarda" mi fa "si è messa in moto da sola! Non ho neanche girato la manovella!" e io ho risposto: "Già, non vede l'ora di muoversi!"»
«Hai scelto un bel momento per ricordarti qualcosa», ringhiò Tom. «Su, andiamo via da qui».
«E dove?»
«Conosci qualcosa che una Sette non possa spostare o salirci sopra?»
«Hai chiesto poco! Una grossa roccia, forse?»
«Non c'è niente di tanto grosso qui intorno», disse Tom.
Tom rifletté un attimo, poi fece schioccare le dita. «Là in cima, dove ho dato la mia ultima scavata con la pala», disse. «Alto quattro metri e più. Stavo tirando fuori dei piccoli pezzi di roccia mista a terriccio, quando Chub mi ha detto di tornare indietro a scovare della marna da una sacca lì vicino. Ho girato intorno allo sbancamento originario e ho tirato fuori una grande quantità di marna. Così, è rimasto uno sprone che sporge sul dirupo, lungo una decina di metri o giù di lì. La parte più stretta è larga meno di un metro e mezzo. Se la Daisy Etta cercherà di prenderci dall'alto, si metterà a cavalcioni di questo sprone e lo sfonderà, precipitando. Se cercherà di prenderci dal basso, non riuscirà ad avere abbastanza trazione per arrampicarsi: lì la terra è troppo smossa e la scarpata troppo ripida».
«E cosa faremo, se si costruirà una rampa?»
«Avremo tutto il tempo di filarcela da qualche altra parte».
«Andiamo».
Al insisté tutto agitato perché venisse scelto un Dumptor, per la sua velocità, ma venne messo a tacere. Tom voleva qualcosa che non potesse restar bloccato da una gomma a terra e che richiedesse qualcosa di potenza davvero tremenda per venir rovesciato. Presero il vaglio a due tempi con la lama da bulldozer, che era stato la macchina di Dennis, e si allontanarono pian piano in mezzo alle tenebre.
Fu press'a poco sei ore dopo che Daisy Etta arrivò e li svegliò. La notte stava arretrando davanti a un pallone che cresceva a oriente, e una brezza tesa aveva cominciato a soffiare dall'oceano. Kelly aveva fatto il primo turno di guardia e Al il secondo, lasciando che Tom si riposasse per tutta la notte. E Tom era troppo stanco per discutere questa decisione. Al si era subito addormentato durante il suo turno di guardia, ma la paura aveva una presa così gelida e sicura sui suoi organi vitali che il primo debole ringhio del grosso motore Diesel lo fece balzar su di colpo, destandolo dal sonno. Avanzò barcollando fin sul ciglio del lungo sprone sul quale stavano dormendo e strillò quando dovette annaspare con le braccia e le gambe per mantenere l'equilibrio.
«Cosa succede?» chiese Kelly, svegliandosi all'istante.
«Sta arrivando», farfugliò Al. «Oh, mio... mio...»
Kelly si alzò in piedi e scrutò l'alba scura e fresca. Il motore tuonava con un rumore cavernoso, un doppio angoscioso suono, poiché giungeva direttamente dalla macchina lanciata verso di loro e dalle pareti rocciose tutt'intorno sulle quali rimbalzava.
«Sta arrivando... cosa possiamo fare?» si lamentò Al. «Cosa accadrà?»
«Mi par quasi che la testa mi caschi giù dal collo», fece Tom, assonnato. Puntò i gomiti e si rizzò a sedere, stringendo tra le mani la testa tormentata. «Se quel bitorzolo che ho dietro l'orecchio si aprisse, ne uscirebbe un martello pneumatico in grandezza naturale». Fissò Kelly. «Dov'è?»
«Non lo so esattamente», rispose Kelly. «Da qualche parte intorno al campo».
«Probabilmente sta fiutando la nostra pista».
«Credi che possa farlo?»
«Credo che possa fare qualunque cosa», disse Tom. «Al, piantala di lamentarti».
Il sole fece emergere il suo orlo scarlatto lungo l'ampia linea che divideva il cielo dal mare. La sua luce rosata diede ad ogni roccia e ad ogni albero una forma e un'ombra. Lo sguardo di Kelly si mosse avanti, indietro, avanti e indietro, finché pochi attimi più tardi, colse un movimento.
«Eccola là!»
«Dove?»
«Giù, accanto al banco dell'ingrassaggio».
Tom si alzò e guardò. «Cosa sta facendo?»
Dopo qualche attimo di silenzio, Kelly disse: «Sta lavorando. Sta scavando una trincea davanti ai bidoni del carburante.»
«Non dirmi... non dirmi che sta per darsi una lubrificata».
«Non ne ha bisogno. È stata completamente ingrassata, e abbiamo cambiato l'olio nella coppa, dopo averla riparata. Ma potrebbe aver bisogno di carburante».
«Non più di un mezzo serbatoio».
«Be', potrebbe aver calcolato di dover fare un sacco di lavoro, oggi». Quando Kelly disse questo, Al cominciò a farfugliare. Fecero finta di non sentirlo.
I bidoni del carburante erano ammucchiati a piramide sui bordi del campo. Erano bidoni da centocinquanta litri, ammucchiati sul fianco. La D-7 andava avanti e indietro davanti ad essi, vicinissima, scavando la terra e disperdendola oltre le pile dei bidoni. Ben presto ebbe scavato un fosso enorme, largo oltre quattro metri e mezzo, profondo un metro e ottanta e lungo nove, proprio sull'orlo della fila dei bidoni.
«Cosa pensi che stia per combinare?»
«Che ne so? Pare voglia del carburante, ma non... guarda! Si è fermata nella buca; sta ruotando su se stessa, e ha fracassato col vomere uno dei bidoni più in basso!»
Tom si grattò con le unghie il velo di barba che gli copriva la mascella. «Ti meravigli di ciò che sta facendo quella bestiaccia? Diamine, ha già previsto tutto. Sa che se avesse cercato di fare un buco in un bidone isolato, sarebbe riuscita soltanto a sbatterlo qua e là. E anche se fosse riuscita a bucarlo, come avrebbe potuto sollevarlo? Non è equipaggiata per maneggiare dei tubi, così... vedi? Guardala adesso! Si è semplicemente messa a un livello più basso di tutta la pila dei bidoni, e li buca. Così può farlo, perché i bidoni delle file più basse sono tenuti fermi dal peso di tutti gli altri. Poi fa marcia indietro e piazza il serbatoio sotto lo zampillo del carburante che sprizza fuori!»
«Come ha fatto a togliere il tappo del serbatoio?»
Tom sbuffò e raccontò come il tappo del radiatore fosse saltato via quando lui aveva volteggiato sopra il cofano, il giorno in cui Rivera era rimasto ferito.
«Sapete», disse, dopo aver riflettuto un momento, «se allora quella macchina ne avesse sapute tante come adesso, io me ne starei a dormire accanto a Rivera e a Peebles. Allora non sapeva granché come cavarsela. Ma ora... si sta manovrando come non aveva mai fatto prima. Ha imparato un sacco di cose da quel giorno».
«È vero», annui Kelly, «e adesso si sta preparando a usarle contro di noi. Si sta dirigendo da questa parte».
Era proprio così. Stava arrivando dritta dritta lungo la pista scabra, sferragliando sul terreno spruzzato di rugiada, con la polvere del giorno prima che turbinava intorno ai suoi cingoli. Raggiunse il punto in cui il terreno s'innalzava, e affrontò con abilità il tratto più impervio, superando trasversalmente le gobbe che s'innalzavano qua e là, evitando i massi, viaggiando libera, veloce e disinvolta. Era la prima volta che Tom la vedeva con chiarezza correre senza un operatore alla guida, e mentre guardava si sentì accapponare la pelle. Quella macchina era innaturale, il suo profilo in qualche modo irreale, simile a un sogno, proprio per la mancanza della silhouette di un uomo sul seggiolino. Aveva un aspetto compatto, massiccio, micidiale.
«Cosa faremo?» gemette Al Knowles.
«Ce ne staremo seduti ad aspettare», disse Kelly, «e tu chiuderai il becco. Ancora per cinque minuti non sapremo se ci verrà addosso da sotto oda sopra».
«Se vuoi andartene di qui», aggiunse Tom, con la massima cortesia, «fai pure». Al tornò a sedersi.
Kelly guardò laggiù in basso il suo amato escavatore, che se ne stava immobile, tozzo e sgraziato, nella cava, un po' spostato a destra rispetto a loro. «Come pensi che se la caverebbe, contro l'escavatore?»
«Se mai dovessero venire ai ferri corti», replicò Tom, «direi che Daisy Etta dovrebbe avere la peggio. Ma lei non combatterebbe: non c'è nessun modo in cui riusciresti a portarti a tiro; Daisy se ne starebbe lontana e ti riderebbe dietro».
«Non riesco più a vederla», gemette Al.
Tom aguzzò occhi e orecchi: «Stai risalendo il contrafforte. Tenta di attaccarci dall'alto. Propongo che ce ne restiamo qui: vedremo se sarà così sciocca da cercare di spingersi fin qui lungo quello stretto sprone friabile. Se lo farà, precipiterà di sotto, sventagliando i cingoli. Probabilmente finirebbe a gambe all'aria, peggiorando la sua posizione ad ogni tentativo».
Poi l'attesa divenne interminabile. Sentivano il motore arrancare sull'altro versante della collina; due volte sentirono la macchina fermarsi per qualche istante e cambiar marcia. A un certo punto si guardarono speranzosi l'un l'altro, quando il frastuono salì fino a diventare una serie di alti muggiti, come se stesse facendo marcia indietro per disincagliarsi. Poi, si resero conto che, invece, stava cercando di affrontare un tratto particolarmente ripido del pendio, e faticava a trovare la trazione necessaria. Ma riuscì a farcela: il motore aumentò di giri quando giunse alla sommità della collina, poi passò in quarta e uscì fuori all'aperto, avanzando pesantemente. Arrivò sobbalzando fino all'orlo della cava, si fermò, tolse il gas, fece cadere la lama al suolo e restò immobile, col motore al minimo. Al Knowles arretrò fino all'orlo estremo della lingua di terra su cui si trovavano, con gli occhi sbarrati al punto che parvero cadergli fuori.
«Oh, insomma... di' cosa vorresti fare, e poi smettila subito!» gli gridò, con voce rabbiosa, Kelly.
«Oh, dunque...» fece Tom, «Daisy Etta sta studiando la situazione. Quel passaggio così stretto non l'ha affatto imbrogliata».
La lama di Daisy Etta cominciò ad alzarsi, ma si arrestò non appena si staccò dal suolo. Cambiò marcia senza raschiare, prese ad arretrare lentamente, aumentando impercettibilmente i giri del motore.
«Sta per saltare!» urlò Al. «Io scappo di qui!»
«Rimani lì, scemo», gli urlò Kelly. «Non può prenderci, finché restiamo qua! Se scenderai giù, ti darà la caccia come a un coniglio».
Il rombo del motore della D-7 fu per Al la goccia che fece traboccare il vaso. Cacciò uno strillo e saltò oltre il ciglio. Scivolò e ruzzolò giù lungo la parete quasi perpendicolare della cava, aiutandosi con le mani e i piedi a conservare una parvenza di equilibrio. Raggiunse infine il fondo e si mise a correre.
Daisy Etta abbassò la lama, sollevò il muso e avanzò ringhiando, in assetto di scavo. Sei, sette, otto metri cubi di terriccio si ammucchiarono davanti a lei, mentre si avvicinava all'orlo. La lama sovraccarica morse lo stretto sentiero che conduceva al loro posatoio. Era quasi tutta marna, tenera, bianca, friabile, e la grande macchina vi affondò dentro il muso, col mostruoso sovraccarico di terriccio che si rovesciò a destra e a sinistra.
«Finirà per seppellirsi da sola!» urlò Kelly.
«No... aspetta». Tom gli afferrò il braccio. «Sta cercando di girare... ce l'ha fatta! Ce l'ha fatta! Si sta facendo una rampa per scender giù!»
«Proprio così... e ci ha isolati dal resto della collina!»
Il bulldozer, con la lama il più in alto possibile, i supporti telescopici che scintillavano alla prima, vivida luce del giorno, si liberò dell'ultimo, tremendo carico, girò e puntò di nuovo verso l'alto, tornando ad abbassare la lama. Passò ancora una volta tra loro e il contrafforte, scavando adesso una trincea troppo ampia perché potessero scavalcarla con un salto, soprattutto considerando quant'era friabile il terreno là, sullo sprone proteso sul vuoto. Tornò a scendere, si voltò verso il loro rifugio, che adesso era un pilastro di marna isolato, e diminuì i giri, mettendosi ad aspettare.
«Non avrei mai pensato a questo», commentò Kelly, con tono colpevole. «Sapevo che saremmo stati al sicuro dai suoi tentativi di costruirsi una rampa verso l'alto, per raggiungerci, ma non avrei mai pensato che avrebbe fatto esattamente il contrario!»
«Diménticatene, fintanto che siamo quassù. E adesso, cosa facciamo? Ce ne stiamo qui, buoni, ad aspettare che il suo carburante finisca, morendo di fame, oppure...»
«Oh, questo non sarà un assedio. Tom, quell'affare ama troppo ammazzare lui stesso la gente. Dov'è Al? Mi stavo chiedendo se avesse abbastanza fegato da passare qui vicino con la nostra macchina, attirando lontano quel mostro?»
«Ha avuto abbastanza fegato da prender la nostra macchina e scappar via», disse Tom. «Non te n'eri accorto?»
«Ha preso... cosa?» Kelly guardò là dove avevano lasciato la loro macchina, la notte prima. Non c'era più. «Quel piccolo, sudicio vigliacco!»
«Non serve imprecare», fece Tom, con calma, interrompendo quella che, sapeva, sarebbe stata una lunghissima serie d'insulti sempre più fioriti. «Che altro ti aspettavi da una simile persona?»
A quanto pareva, Daisy Etta aveva deciso di darsi da fare per toglierli dal loro splendido isolamento. Diede una sbuffata, che indicava gas dato troppo in fretta, e si diresse verso il loro pilastro con un angolo della lima, tagliandone via un'enorme fetta, togliendo il sostegno al materiale sovrastante che crollò giù su una sua fiancata e sul cingolo, mentre passava. Due buoni palmi del loro piccolo antopiano sparirono, in quella passata.
«Oh, oh, questa non ci voleva proprio», osservò Tom.
«Si sta preparando a scavarci giù», replicò Kelly, cupo. «Le ci vorranno venti minuti, al più. Tom, ti dico che è meglio filarcela».
«Non sarà proprio uno scherzo. Non hai proprio nessuna idea della velocità con la quale quell'affare riesce a muoversi adesso. Non dimenticarti che è assai di più, di quando aveva un uomo a guidarla. Può passare dalla prima alla quinta, e da questa alla marcia indietro... così». Fece schioccare le dita. «E può ruotare su se stessa più in fretta di quanto tu riesca a sbattere gli occhi, e scaraventare quella lama dove vuole».
Il bulldozer passò sotto di loro, muggendo, e il loro piccolo ripiano si ridusse di un'altra trentina di centimetri.
«D'accordo», acconsentì Kelly. «E allora, che cosa vuoi fare? Rimanere qui, e lasciare che ci scavi tutto il terreno da sotto i piedi?»
«Ti stavo soltanto mettendo in guardia», rispose Tom. «Adesso, ascolta. Aspetteremo fino a quando non prenderà un altro carico di terra. Le ci vorrà un secondo per sbarazzarsene, una volta che scoprirà che ce ne siamo andati. Ci separeremo... non potrà ammazzarci tutti e due. Tu correrai fuori, allo scoperto, cercando di girare intorno alla curva della collina fino a un punto dove potrai arrampicartici. Poi tornerai fin qui, vicino alla cava di marna. Un uomo può arrampicarsi fuori da una trincea di quattro metri più velocemente di qualunque trattore mai costruito. Io taglierò attraverso la trincea, giù in fondo. Se inseguirà me, tenterò di raggiungere l'escavatore e, quanto meno, di far fruttare i soldi che è costato. Posso giocare a nascondino intorno e sotto quell'escavatore, se lei ci sta».
«Perché proprio io allo scoperto?»
«Non credi che con quelle tue lunghe gambe riuscirai a correre più veloce di lei su quella distanza?»
«Immagino che dovranno farlo», sogghignò Kelly. «D'accordo, Tom».
Attesero, in preda a una tensione crescente. Daisy Etta tornò indietro, ancora più vicina, e cominciò un altro passaggio. Mentre il motore pulsava sotto sforzo, Tom disse: «Adesso!» e saltarono. Kelly, come sempre simile a un gatto, atterrò in piedi. Tom, che aveva le ginocchia e le caviglie nere e bluastre per i lividi lasciatigli dalle corde, barcollò per due passi e cadde. Kelly lo tirò in piedi proprio mentre la prua d'acciaio del bulldozer spuntava da dietro la scarpata. Subito, la D-7 innestò la quinta e puntò ululando su di loro. Kelly si buttò a sinistra e Tom sulla destra, e corsero via di gran carriera, Kelly fuori, verso la pista; Tom direttamente verso l'escavatore. Daisy Etta li lasciò divergere per un attimo, conservando la propria direzione, nel tentativo d'inseguirli entrambi. Poi, evidentemente, dovette aver giudicato che Tom era il più lento dei due, poiché girò verso di lui. Ma quell'istante di esitazione era tutto ciò di cui Tom aveva bisogno per ottenere il piccolo vantaggio necessario. Arrivò correndo, col fiato mozzo, all'escavatore, le gambe che si muovevano come pistoni, e si tuffò fra i cingoli della grossa macchina.
Mentre toccava il suolo, il grande vomere di acciaio al manganese colpì il cingolo destro dell'escavatore e l'urto fece tremare tutte le quarantasette tonnellate. Ma Tom non si fermò. Passò sotto la macchina avanzando a quattro zampe, per rialzarsi dietro di essa. Qui, diede un balzo e si afferrò al bordo del finestrino posteriore, lo agguantò anche con l'altra mano, si tirò su, e cadde dentro. Qui per il momento era al sicuro; gli stessi enormi cingoli erano più alti di quanto potesse sollevarsi la lama del D-7, e il pavimento della cabina si trovava ben cinque metri più in alto della sommità dei cingoli. Tom andò al portello della cabina e sbirciò fuori. La Sette si era ritirata e aveva messo il motore al minimo.
«Mi stai studiando, eh?» fece Tom, digrignando i denti, e si avvicinò al grosso Diesel Murphy. Senza fretta controllò l'olio con l'asticciola, la rimise al suo posto, tolse dal gancio la chiave del regolatore e la infilò nel cruscotto. Diede mezzo gas, tirò la manovella di avviamento, girò la chiave. Il motore sputacchiò una nuvoletta di fumo azzurrognolo dallo scappamento incappucciato e si mise in moto. Tom rimise a posto la chiave, studiò la spia del flusso del carburante e gli indicatori di pressione, poi andò al portello e guardò fuori un'altra volta. La D-7 non si era mossa, ma stava andando su e giù di giri, in quella maniera irregolare che aveva mostrato lassù, sul piccolo altopiano. Tom ebbe la fantastica idea che si stesse preparando a balzare. Scivolò sul seggiolino e inserì la frizione principale. I grossi ingranaggi che riempivano metà della cabina cominciarono obbedienti a girare. Tom sbloccò i freni con un colpo dei calcagni, lasciò che i suoi piedi si appoggiassero leggeri sui pedali, quando questi si alzarono.
Poi allungò la mano sopra la sua testa e tirò indietro la manetta del gas.
Non appena il Murphy prese a salire di giri, impugnò sia la leva di sollevamento che quella di rotazione e le tirò indietro. Il motore ululò; la benna da due metri si staccò dal suolo con un sussulto improvviso quando la frizione ancora fredda s'ingranò. La grossa macchina sterzò tutta a destra; Tom tirò in avanti la leva del sollevamento e controllò la salita della benna col piede sul freno. Abbassò la leva di trazione, la benna scivolò fino in fondo, e lo spigolo del cucchiaio sfiorò il cofano della D-7, staccandole il tubo di scarico, la marmitta e tutto il resto, e il filtro della presa d'aria; Tom imprecò: aveva calcolato che l'altra macchina sarebbe balzata avanti. Se l'avesse fatto, le avrebbe fracassato la carcassa di ghisa del radiatore. Ma la D-7 restò immobile, prendendo la sua decisione in una frazione di secondo.
Ora però si mosse, e in fretta. Con la sua incredibile capacità di cambiare marcia, fece un balzo all'indietro e girò su se stessa, portandosi fuori tiro prima che Tom potesse bloccare il vorticoso roteare dell'escavatore. I massicci tamburi della frizione sprigionarono un fumo acre, quando la macchina rallentò, si fermò, e invertì il senso della rotazione. Tom la fermò quando si trovò a fronteggiare la D-7, sollevò la benna di qualche metro, e la tirò indietro a metà strada, pronto a tutto. I quattro grossi denti della benna mandarono barbagli al sole. Tom fece scorrere il suo sguardo esperto sui cavi, il braccio e il manico del cucchiaio, apprezzando la lucida levigatezza delle parti scorrevoli, la manovrabile tensione dei cavi e dei tiranti ben lubrificati. La gigantesca macchina era li, forte, pronta, e del tutto obbediente, malgrado tutta la sua forza bruta.
Tom studiò con grande attenzione il cofano danneggiato del motore della D-7. L'estremità slabbrata del tubo della presa d'aria lo fissava. «Aha!» esclamò Tom. «Se riesco a ficcarti qualche cucchiaiata di marna asciutta lì dentro, avrai qualcosa da masticare».
Tenendo d'occhio la D-7, girò l'escavatore verso la cava, lasciò cadere la benna e l'affondò dentro la marna. La spinse bene in fondo, e il Murphy urlò per chiedere aiuto, ma continuò a spingere. Al massimo del carico, un urto terrificante lo fece ondeggiare sul seggiolino. Guardò dietro di sé attraverso il portello, e vide la D-7 intenta ad arretrare. Si era precipitata in avanti e aveva vibrato un tremendo colpo al contrappeso dietro la cabina. Tom sogghignò a denti stretti. Avrebbe dovuto far di meglio. Là dietro c'erano soltanto dalle otto alle dieci tonnellate di acciaio compatto. E al momento non gl'importava davvero se quel colpo avesse graffiato oppure no la vernice.
Girò di nuovo il gigantesco escavatore, con la marna biancastra che scorse fuori da entrambi i lati della benna ricolma. Adesso l'escavatore funzionava perfettamente, poiché un escavatore è controbilanciato e raggiunge il miglior equilibrio quando si mantiene orizzontale con la benna piena. Le frizioni di sollevamento e di rotazione e i rivestimenti dei freni si erano riscaldate, liberandosi così grazie all'evaporazione della condensa depositatasi durante la notte, e la macchina rispondeva ai comandi in un modo che avrebbe fatto la gioia di ogni operatore. Tom spostò leggermente la leva di rotazione, indietro per girare a destra, avanti per la sinistra, seguendo la lenta danza che la D-7 aveva iniziato, muovendosi cautamente su e giù come un pugilatore che cercasse un varco nella guardia dell'avversario. Tom tenne sempre la benna fra sé e la D-7, sapendo che non avrebbe potuto scagliarsi contro un arnese costruito per frantumare la roccia più dura per venti ore al giorno, e trovar piacevole la cosa.
Daisy Etta ruggì e si precipitò in avanti. Tom tirò indietro di colpo la leva di sollevamento, e la benna si alzò, e Daisy Etta vi passò sotto. Tom pigiò il comando d'apertura delle valve, e le grandi mascelle d'acciaio si aprirono facendo venir giù, dentro il cofano aperto, una cascata di marna che il ventilatore disperse in un'enorme nube ribollente. Tuttavia, l'istante che Tom impiegò per fermare la benna e scaricarla fu sufficiente perché Daisy Etta si togliesse di sotto con un passo di danza, giacché, quando tentò di far cadere la benna sulla D-7 per fracassare i tubi degli iniettori in cima al blocco del motore, l'altra macchina se n'era già andata.
La polvere si diradò, e la D-7 tornò all'attacco, eseguendo una finta sulla sinistra, poi vibrò la lama contro la bella, che si era appena sollevata dal suolo. Tom curvò per andarle incontro, poiché quella finta l'aveva fatta avvicinare più di quanto gli piacesse, e la benna si scontrò con la lama producendo una pioggia di scintille e un clangore metallico che si sarebbe potuto udire a un chilometro di distanza. Daisy Etta era venuta avanti con la lama sollevata, e Tom lanciò un grido silenzioso quando vide che il telaio curvo dietro la lama era rimasto intrappolato fra due denti della benna. Impugnò il comando di sollevamento e la benna salì, trascinandosi dietro tutta la parte frontale del bulldozer.
Daisy Etta balzò avanti e indietro, e i suoi cingoli morsero rabbiosamente il terreno, mentre alzava e abbassava la lama nel tentativo di liberarsi.
Tom tirò su di nuovo la benna, cercando di trascinare più vicino il bulldozer, poiché il braccio era troppo basso per cercar di sollevare un simile peso morto. In quella posizione, uno dei cingoli dell'escavatore cominciò ad accennare a perder la presa sul terreno. E le frizioni dello scavo e della frizione non riuscirono a farcela da sole: cominciarono a scaldarsi e a slittare.
Tom sollevò la benna un altro po'; il cingolo dell'escavatore si sollevò d'un palmo dal suolo. Tom imprecò e lasciò ricadere la benna, in un attimo la D-7 fu libera e corse via. Tom fece ruotare l'escavatore all'impazzata, cercando di colpirla, ma la mancò. La D-7 tornò all'attacco, descrivendo un'ampia curva; Tom prontamente girò l'escavatore per affrontarla frontalmente, e le vibrò un tremendo fendente che la colpì sulla lama. Questa volta, la D-7 non si ritirò dopo essere stata colpita, ma continuò ad avanzare, dritta, spingendo la benna davanti a sé. Prima che Tom si rendesse conto di quanto stava facendo, la sua benna era davanti ai cingoli e poi in mezzo ad essi, al suolo. Era stata la manovra più abile e veloce che si potesse immaginare, e aveva tolto all'escavatore la possibilità di girare, fintanto che la Daisy Etta fosse riuscita a tener la benna imprigionata fra i cingoli.
Tom manovrò furiosamente per liberarla, ma riuscì soltanto a sollevar re un altro po' il braccio, dal momento che non c'è niente che possa tener giù un braccio se non il suo stesso peso. Questo sollevarsi servì soltanto a far fumare le frizioni e a far scendere di giri il motore, a un livello pericolosamente basso, rischiando che si spegnesse.
Tom imprecò di nuovo e calò la mano su un grappolo di piccole leve alla sua sinistra. Erano le marce. Su quel tipo di escavatore, la leva centrale controllava tutto salvo lo scavo e il sollevamento. Con la leva centrale l'operatore, dopo aver scelto la marcia, controlla gli spostamenti, vale a dire la forza motrice dei cingoli, in avanti e indietro; il sollevamento e l'abbassamento del braccio; e la rotazione. La macchina può fare soltanto una di queste cose per volta. Se è innestata la marcia sui cingoli, non può ruotare su se stessa. Se è innestata la rotazione, non può alzare né abbassare il braccio. In tanti anni di funzionamento, questa limitazione non aveva mai creato problemi a un operatore; ma adesso, tuttavia, non c'era niente di normale.
Tom bloccò il comando della rotazione e innestò quello dello spostamento sui cingoli. Gli ingranaggi in questo caso erano a ganascia, non a frizione, cosicché fu costretto a toglier gas e a mettere il motore al minimo di giri per poter far ingranare i denti. Quando il Murphy scese di giri, Daisy Etta l'interpretò come il segnale che avrebbe potuto ripartire all'attacco, e si mise a cozzare furiosamente contro la benna. Tom aveva tutti i comandi in folle, ma tutto ciò che l'assalitrice riuscì a fare fu di affondare ancor più nel terreno con i suoi «tacchetti» nuovi e acuminati.
Tom diede nuovamente gas e azionò la leva centrale. Vi fu un fragoroso crepitio di catene motrici, e i grossi cingoli dell'escavatore cominciarono a girare. Daisy Etta aveva flange larghe cinquantun centimetri, i suoi cingoli erano lunghi quattro metri e un terzo, e sopra c'erano quattordici tonnellate d'acciaio. Le enormi flange piatte dell'escavatore erano larghe novantun centimetri, i cingoli erano lunghi sei metri e reggevano un peso di quarantasette tonnellate. Il confronto era semplicemente impossibile. Il Murphy segnalò, col suo ruggito, che il lavoro era duro, ma non diede alcuna indicazione di volersi fermare. Daisy Etta compì l'incredibile impresa di innestare la marcia avanti mentre si muoveva all'indietro. Ma non le servì a niente. I suoi cingoli continuarono a girare, cercando di spingerla in avanti, sprofondando sempre più nel terreno; e lentamente ma inesorabilmente fu costretta dall'escavatore ad arretrare fino alla parete liscia della cava.
Tom udì dei rumori che non erano quelli di una macchina sotto sforzo; guardò fuori, e vide Kelly in alto, in cima alla cava, che fumava, i piedi penzoloni nel vuoto, sferrando ogni tanto pugni all'aria come se fosse seduto sui bordi di un ring ad assistere ad un incontro di pugilato, cosa che sicuramente doveva aver fatto.
Adesso Tom dava al bulldozer pochissima scelta. Se la D-7 non si fosse tirata di lato davanti a lui, sarebbe stata schiacciata contro la parete della cava e il suo serbatoio del carburante ne sarebbe uscito fracassato. E c'erano tutte le possibilità che, dopo averla inchiodata in quella posizione, Tom potesse sbrogliare la benna, alzarla sopra di lei e farla a pezzi. E se si fosse girata prima d'essere costretta a forza contro la cava, avrebbe dovuto liberare la benna di Tom.
In ogni caso, la benna sarebbe tornata libera.
Il Murphy lo avvertì, ma non in tempo. Cantò in tono sommesso quando il carico si alleggerì, e allora Tom seppe che il bulldozer stava facendo marcia indietro. Tom azionò la leva di sollevamento della benna, e questa s'innalzò non appena la D-7 si allontanò da lui. Tom la mise in assetto di scavo e la lasciò cadere con uno schianto... e mancò il bersaglio. Poiché il bulldozer riuscì a schivarla con l'agilità di un ballerino... e mentre aveva innestata la marcia di sollevamento, l'escavatore non poteva esser fatto ruotare per seguirlo. Allora, la Daisy Etta partì alla carica, portò un cingolo sulla scarpata e quasi si ribaltò su un fianco proiettando in alto un'estremità della lama. La mossa giunse del tutto inaspettata, e Tom fu colto di sorpresa. La D-7 si scagliò contro la benna, e il bordo tagliente della lama s'infilò tra i denti. Questa volta c'era tutto il peso della D-7 per tener bloccata la benna in quella posizione. Non avrebbe avuto alcun modo di liberarsi, ma allo stesso tempo aveva intrappolato la benna così lontano dal perno centrale dell'escavatore che Tom non avrebbe potuto tirarla verso l'alto senza sbilanciarsi e far capottare il suo mostro.
Daisy Etta si allontanò facendo marcia indietro, trascinando con sé la benna finché non fu fermata dai blocchi del paraurti. Poi il bulldozer cominciò a muoversi di lato come un granchio, contro la scarpata, ma quando Tom tentò di sollevare nuovamente la benna, Daisy Etta cambiò marcia e lo seguì, seppellendo profondamente nella scarpata un'intera estremità della sua lama.
Stallo. Daisy Etta aveva infilzato la benna, ma questa l'aveva immobilizzata. Tom tentò di arretrare, ma l'ancoraggio del bulldozer nella scarpata era troppo solido. Cercò di ruotare, di sollevare. Tutto quello che le frizioni sovraffaticate riuscirono a produrre fu del fumo. Tom grugnì e ridusse i giri al minimo, sporgendosi fuori dal finestrino. Anche Daisy Etta aveva messo il motore al minimo, molto chiassoso privo com'era di marmitta, uno strepito monotono e sgradevole dallo scappamento privo di tubo. Ma dopo i ruggiti dei due possenti motori, quel parziale silenzio era anch'esso assordante.
Kelly chiamò Tom dall'alto. «Un doppio fuori combattimento, eh?»
«Pare. Cosa ne diresti se tentassimo di avvicinarci a lei per calmarla un po'?»
Kelly scrollò le spalle. «Non saprei. Se si è fermata sul serio, sarebbe la prima volta. Io ho molto rispetto per quell'arnese, Tom. Non si sarebbe cacciato in quel pasticcio se non avesse un asso nella manica».
«Guardala, amico! Supponi che sia un bulldozer privo di follie omicide, e tu debba tirarlo fuori di là. Non può sollevare abbastanza in alto la sua lama per liberarla dai denti di quella benna, sai. Credi che tu saresti capace di farlo?»
«Potrebbe volerci parecchio», fece Kelly, strascicando le parole. «Certo che è davvero in secca».
«D'accordo. E se le inchiodassimo i cannoni?»
«Per esempio?»
«Per esempio, prendiamo delle sbarre e le sventriamo le tubature». Si riferiva alle tubature a spirale che portavano il carburante, sotto pressione, dalla pompa agli iniettori. Ce n'erano parecchi metri che partivano dalla pompa del serbatoio, formando spirali a espansione sopra la testa del cilindro.
Mentre parlava, il motore di Daisy Etta esplose in quel maniacale sali e scendi che le era caratteristico.
«Oh, guarda un po'!» gridò Tom, sovrastando il baccano. «Stava origliando!»
Kelly si lasciò scivolar giù per il ripido pendio della cava. Salì sul cingolo dell'escavatore e infilò la testa nel finestrino. «Be', vuoi prendere una sbarra e tentare?»
«Andiamo!»
Tom andò alla cassa degli attrezzi e tirò fuori il palanchino che Kelly usava per sostituire i cavi nella sua macchina, poi balzò a terra. Si avvicinarono con cautela al bulldozer. Daisy Etta aumentò di giri quando le furono vicini, cominciando a fremere. L'estremità frontale si alzò e si abbassò e i cingoli cominciarono a girare quando tentò di contorcersi per sgusciar fuori dalla morsa in cui la sua lama era rimasta intrappolata.
«Sorella, prenditela con calma», le parlò Tom. «Così, finirai solo col seppellirti. Ora, resta ferma e prenditi quello che ti spetta, come una brava ragazza. Questo è il tuo turno».
«Fai attenzione», intervenne Kelly. Tom sollevò la sbarra e appoggiò una mano sul parafango.
Il bulldozer, letteralmente, rabbrividì, e dall'inserimento del tubo di gomma in cima al radiatore schizzò fuori un getto accecante d'acqua bollente. Si espanse a ventaglio e li colpì entrambi in pieno viso. Barcollarono all'indietro, imprecando.
«Tutto a posto, Tom?» rantolò Kelly, un attimo più tardi. Il getto l'aveva colpito soprattutto sulla bocca e su una guancia. Tom era ginocchioni, la camicia sfilata dai calzoni, che si copriva il volto con le mani.
«I miei occhi... oh, i miei occhi...»
«Vediamo!» Kelly si lasciò cadere accanto a lui e gli afferrò i polsi, staccandoglieli con delicatezza dal viso. Fischiò. «Vieni», disse, digrignando! denti.
Aiutò Tom ad alzarsi e lo condusse a qualche metro dalla macchina. «Rimani qui», gli disse, con voce rauca. Si girò, tornò di nuovo verso il bulldozer, agguantando il palanchino. «Brutta bastarda...!» urlò, e scagliò la sbarra come un giavellotto contro le spire dei tubi. Fu un po' troppo alto. Colpì il cofano disastrato e lasciò una nuova, profonda ammaccatura sul metallo. L'ammaccatura si raddrizzò subito, con perfetta elasticità, con un sonoro thung-g-g! e fece rimbalzare la sbarra contro di lui. Kelly la schivò; la sbarra passò sibilando sopra la sua testa e colpì Tom ai polpacci. Tom crollò a terra come un bue colpito al mattatoio, ma subito si rialzò, barcollando.
«Vieni!» ringhiò Kelly, e afferrato Tom per il braccio lo spinse al riparo dietro la scarpata. «Siediti. Torno subito».
«Dove vai, Kelly... Stai attento!»
«E come no?»
Le lunghe gambe di Kelly divorarono la distanza fino all'escavatore. Balzò dentro la cabina, portò la mano dietro di sé, sopra il motore e regolò la valvola principale del gas sul massimo. Passando dietro al seggiolino, tirò la manetta e il Murphy ululò. Poi azionò la leva di sollevamento della benna fino al fermo, si voltò e saltò giù dalla macchina con un unico, agile movimento.
Il tamburo dell'argano cominciò a girare e a tendere il cavo allentato il quale, sotto sforzo, si raddrizzò. La benna si mosse sotto il peso morto del bulldozer che gravava su di essa; e poi, lentamente, i grandi cingoli piatti cominciarono a sollevare le loro estremità posteriori dal suolo. La grande massa obbediente del macchinario barcollò in avanti sulle punte dei cingoli, il Murphy scese di giri sotto quel peso eccezionale, ma mantenne la tensione. Un trefolo del cavo doppiato dell'argano si spezzò e sferzò l'aria intorno, con uno schianto sonoro; poi il punto d'equilibrio fu superato... l'enorme macchina si sbilanciò dalla parte opposta...
E l'escavatore si rovesciò, abbattendosi al suolo con uno schianto da terremoto. Il braccio, otto tonnellate di robustissimo acciaio, calò con assordante sferragliare sulla lama del bulldozer e là giacque, schiacciandolo sui denti della benna che già l'imprigionavano.
Ora, Daisy Etta rimase lì senza più cercare di muoversi, imballando il motore impotente. Kelly le passò davanti a passo militaresco, facendole uno sberleffo, e tornò da Tom.
«Kelly! Pensavo che non saresti più tornato! Cos'è successo?»
«L'escavatore è andato a sbattere il naso per terra».
«Bravo! È caduto sul bulldozer?»
«Purtroppo no, ma il braccio è steso sopra la lama. La D-7 è come un topo in trappola».
«Meglio stare attenti che il topo non si rosicchi via le gambe per uscirne fuori», replicò Tom, asciutto. «Il motore gira ancora, vero?»
«Già. Ma quello lo sistemeremo in fretta».
«Sì, certo. Come?»
«Come? Non so. Dinamite, forse. Come funziona l'ottica?»
Tom dischiuse alquanto gli occhi e grugnì: «Brutt'affare. Comunque, un po' riesco a vedere. Le palpebre sono mezze lessate. Dinamite, hai detto? Be'...»
Tom si sedette con la schiena contro la scarpata e distese le gambe. «Senti, Kelly, ho avuto poco tempo in queste ultime ore per riflettere, ma c'è una cosa continua a ossessionarmi... qualcosa che rimuginavo già molto tempo prima che voi ragazzi vi rendeste conto che stava succedendo qualcosa, oltre al fatto che Rivera era rimasto ferito in qualche modo che non volevo rivelarvi. Ma non credo che mi prenderai per pazzo se adesso aprirò la bocca e vuoterò il sacco».
«D'ora in avanti», replicò Kelly, con fervore, «nessuno sarà più giudicato pazzo. Dopo tutto quello che ho visto, sono disposto a credere qualunque cosa».
«Va bene. Dunque, per ciò che riguarda il bulldozer. Cosa credi ci sia entrato dentro?»